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 2021  ottobre 18 Lunedì calendario

Salvate i baby campioni

Allenamenti di due ore per tre pomeriggi alla settimana. Sotto gara, prove anche al sabato. A sei anni. Benvenuti nella fabbrica dei baby campioni, dove l’approccio allo sport ha poco di amatoriale e ingrana subito la quinta, soprattutto in alcune discipline come il nuoto sincronizzato o la ginnastica artistica. Alla prima lezione già si parla di gare e di medaglie, con una fretta eccessiva per chi ancora non sa fare un tuffo di testa o una ruota. E, d’accordo che le società sportive (60mila quelle italiane) hanno bisogno di vincere titoli per tenere in piedi i bilanci, aumentare l’appeal con coppe e podi per incrementare il numero degli iscritti, ma forse in tanti casi ci si dimentica che si ha a che fare con bambini della scuola elementare. Che magari possono fare sport senza per forza diventare mini campioncini. Eppure la corsa a scovare il talento più promettente sembra sempre più spiccata: alle competizioni internazionali ci sono da sfidare atlete/bambine russe e cinesi che già a 14 anni hanno conseguito titoli su titoli. E, di conseguenza, l’agonismo diventa precoce, a discapito dello sport amatoriale.
Premesso che siamo tutti d’accordo nel dire che lo sport da piccoli faccia bene, a che età è giusto avviare i bambini all’agonismo? «Non prima degli 8 anni – sostiene Roberto Pentrella, segretario della Federazione ginnastica italiana -. Più che per ragioni fisiche, lo dico per ragioni di apprendimento. È vero che da bambini è più facile imparare, ma serve anche una certa maturità del sistema nervoso. Per questo a 5 anni è giusto proporre allenamenti di un’ora o un’ora e mezza per due volte alla settimana, non di più. Come federazione siamo contro il sovraccarico di allenamento da piccoli. Non vanno creati campioni a tutti i costi, ma questo va spiegato all’Unione europea ancora prima che alle singole società sportive».
Dal 2007 esistono le Olimpiadi giovanili, patrocinate dal Comitato olimpico internazionale e riservate ad atleti fra i 13 e i 18 anni. E nel calcio la ricerca di baby talenti coinvolge ormai i dodicenni.
Con il risultato che le partite dei piccoli ripropongono, in miniatura (ma nemmeno poi tanto) il modello delle competizioni adulte. Con giri d’affari milionari e un meccanismo che richiede campioncini fatti e finiti da mettere in campo o in pista sempre prima.
IL PROCLAMA DELL’UNESCO
«Si tratta di iniziative che vanno in controtendenza con il lavoro fatto da altri organi per evitare il fenomeno dei baby campioni» spiega Pentrella. E che stridono anche con la Carta dei diritti dell’Unesco, scritta nel 1992 per chiarire il rapporto dei bambini con lo sport, il loro diritto a non dover diventare per forza dei campioni.
Uno dei punti del documento sancisce anche il diritto di seguire allenamenti adeguati ai propri ritmi: «Le sedute di allenamento – recita – non devono essere improntate all’esasperazione della preparazione atletica e tecnica. È necessario non perdere di vista l’aspetto ludico dell’approccio giovanile allo sport».
Sacrosanto per l’Organizzazione è anche il diritto a divertirsi. Viene poi scritto chiaramente: «Il programma di allenamento deve essere ben equilibrato e consentire momenti di recupero. Nei periodi di congedo scolastico l’allenatore rispetta la necessità di riposare oltre il fisico anche la mente e non impone una quantità eccessiva di allenamento. Il bambino va considerato non solo in virtù di una buona competenza sportiva e di una qualsiasi eccellenza dei suoi risultati, ma anche e soprattutto con i suoi limiti e la sua inesperienza».
C’è spazio per tutti, per chi è bravo e per chi lo è meno. Ma non deve essere un problema: né per le società, né per i genitori. Perché per i bambini non lo è affatto. E non lo è nemmeno per il bravo allenatore, che spesso rappresenta una figura chiave nella crescita (non solo sportiva) dei ragazzini.
Il concetto viene ribadito anche nella Carta dei doveri dei genitori nello sport messa a punto da Panathlon, un movimento internazionale per la promozione e la diffusione della cultura e dell’etica sportiva, secondo il riconoscimento ufficiale del Comitato olimpico internazionale. «Eviterò ai miei figli, fino all’età di 14 anni, pesanti attività agonistiche, salvo discipline formative, privilegiando lo sport ludico e ricreativo – recita il giuramento del buon genitore -. Dirò ai miei figli che per essere bravi sportivi e sentirsi felici nella vita non è necessario diventare dei campioni. Al loro ritorno a casa non chiederò se abbiano vinto o perso ma se si sentano migliori. Né chiederò quanti gol abbiano segnato o subìto o quanti record abbiano battuto, ma se si siano divertiti».
LIMITI DI ETÀ
Non esiste per tutte le discipline un limite di età scritto nero su bianco per partecipare alle Olimpiadi. Tanto che è stata la skateboarder di 13 anni Sky Brown ad aggiudicarsi il bronzo alle Olimpiadi di Tokyo. Niente limiti nemmeno per il surf, altra disciplina che ha debuttato alle Olimpiadi per la prima volta. I subacquei olimpici devono avere almeno 14 anni, ad esempio, mentre in ginnastica, l’età minima per le Olimpiadi e per i Campionati mondiali è di 16 anni. Anni fa, quando questo limite non c’era ancora, fece scalpore il caso di Nadia Comaneci, la giovane ginnasta romena che vinse l’Olimpiade a Montreal a soli 14 anni. «Altro che baby campioni – commenta Pentrella -. Noi dobbiamo essere fieri di atlete come Vanessa Ferrari, argento a Tokyo nella ginnastica artistica a 31 anni». Un caso che dimostra quanto sia eccessiva la fretta con cui le società vogliano trasformare in campioni i neo iscritti. E che forse sposta l’asticella del fine carriera per gli atleti. «Le leve non devono essere economiche – rileva Roberto Mauri, psicologo del Centro sportivo italiano -. Invece si trattano i bambini come fossero piccoli adulti e si interferisce con la loro crescita cognitiva, emotiva e relazionale. Il bambino, fino a una certa età, cresce grazie al gioco (che contiene sì le regole, ma anche immaginazione, condivisione e divertimento). Poi viene forzato dai vincoli dello sport (prestazione, competizione, regole imposte dall’esterno). Sport e gioco in comune hanno la scoperta del limite. E anche l’agonismo non deve essere concepito come un superamento dell’altro ma come una conoscenza dei propri limiti».
LO SPORT AMATORIALE
Mauri è convito che l’aspetto amatoriale vada coltivato e non snobbato perché aiuta a non esasperare i risultati. Aiuta a realizzare uno sport senza cronometro e senza record da battere. «Ricordiamoci – spiega lo psicologo – che se non siamo tutti uguali nelle performance, lo siamo nelle emozioni. Lo sport non deve essere solo per chi sfonda». Tuttavia, ammette l’esperto, è anche vero che «se sono le stesse società a forzare molto gli orari di allenamento, i genitori pensano di essere nel giusto e affidano i loro figli inserendoli nel circuito di allenamenti strong».
L’ABBANDONO PRECOCE
A fronte di una nicchia di mini campioni, esiste un’immensa platea di bambini sedentari. In base ai dati dell’Osservatorio «Con i bambini», fondo per il contrasto alla povertà minorile, emerge che un minore su 5 non fa sport: il 18% ha tra i 6 e i 10 anni, il 16% ha tra gli 11 e i 14 anni e il 40% fra i 3 e i 5 anni.
Si tratta di un altro lato della medaglia che racconta di contraddizioni e eccessi, in una direzione e nell’altra. Emerge anche che, non appena si affacciano all’adolescenza, molti ragazzini, avviati all’agonismo da mamma e papà fin dalla tenera età, mollano il colpo e non ne vogliono più sapere delle gare. Il Coni ha indagato tra le motivazioni del «basta sport» tra i giovani fra i 10 e i 24 anni: la maggior parte ha smesso gli allenamenti per ragioni di studio e tempo, una parte per mancanza di interesse, un’altra fetta per ragioni economiche. E in parte c’è chi ha smesso perché seguiva la disciplina sportiva scelta dai genitori.