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 2021  ottobre 18 Lunedì calendario

Intervista a Piero Chiambretti


Trenta maggio 1956.
«Un giorno lontanissimo, all’ospedale di Aosta. Ero presente, ma non ricordo nulla. Però avevo le idee chiare: sono uscito subito».
Ventisei maggio 2011.
«Un giorno importante, all’ospedale di Parma. Alle 9 del mattino sono diventato padre e da quel momento non sono più stato figlio, ho capito la differenza del ruolo. L’infermiera disse: entrate, è nata, ma si era sbagliata. E così mi trovai davanti questa immagine fortissima: una luce potentissima che sparava nella direzione immaginabile, con il medico che estraeva la bambina dalla pancia della madre. Margherita non pianse. Era sana, dal testone enorme, simpatica fin da subito».
Ventuno marzo 2020.
«Un giorno drammatico, all’ospedale San Mauriziano di Torino. Erano le 4 del pomeriggio, ma a me sembravano le nove di sera. I medici mi dicono che mia mamma Felicita sarà messa vicino a me, per l’ultimo giro di valzer, nella stanza dove sono ricoverato come lei per il Covid. Ricordo che mamma arriva, come in un sogno. Mi addormento serenamente e a un certo punto entra Chiara, l’infermiera, che le mette due dita vicino alla carotide e ne accerta la morte. Mi riaddormento, mamma viene portata via. Poi mi sveglio alle 4 di mattina per i primi esami e accade il miracoloso: i miei valori, che fino a quel momento non davano segni di miglioramento, finalmente iniziano a risalire. È lì che sono guarito, in quel passaggio dalla morte alla vita in cui mia madre rinunciando alla sua ha scelto di darmi la vita per la seconda volta».
Piero Chiambretti cammina avanti e indietro nella sua bella casa torinese dai soffitti altissimi, un Superman a grandezza naturale fa la guardia fuori dal salotto, il Cinema Margherita è senza spettatori nella stanza accanto che fu un corridoio (e dove adesso il maxischermo occupa tutta la parete più stretta, si fa per dire). È veloce «anche da fermo», come ha scritto in Chiambretti, l’autobiografia autorizzata dalla figlia, scritto per Sperling & Kupfer. Nella prefazione la bambina si firma «Meggie», ma lui la chiama Margherita, Babù, Bubù. E poi Gino, Tommy, Giuseppe. Ammette: «Per me quella ragazza è tutto: è amico, consigliere, complice, bersaglio, è una palla di tenerezza e vitamina. Quando siamo insieme io mi sento meglio. Vive con la madre, Federica, ma il venerdì viene da me e passiamo insieme il weekend. Vuole dormire con me, anche se nella sua camera aveva voluto un letto a castello per dormirci lei sopra, e mia madre sotto».
A Felicita ha dedicato il libro. Com’era?
«Una donna fortissima, ironica. Guardi, questi sono i suoi libri (apre a caso una delle cinque raccolte di poesie sul tavolo basso di vetro, tutti con una farfalla in copertina, ndr). “Con infinito amore a mio figlio Piero per essermi stato donato dal destino”... Ci resto male ogni volta, non è vero che il tempo risolve le cose. La ricordo quando era giovane, come una sorella, ero molto geloso di lei, aveva degli spasimanti che mi teneva nascosti. Giovane, simpatica, ma preoccupata: stava sveglia fino a tardi per finire il lavoro. Era entrata all’Alleanza Assicurazioni da semplice segretaria fino a diventare assistente del direttore».
Le chiedeva un parere sui programmi?
«Sempre, era la migliore telespettatrice e la più grande critica. Quello che le è piaciuto di più è stato Il laureato. Quando mi sentivo insicuro mi rincuorava, ma aveva anche il suo modo per scuotermi: mi diceva “Sei uno stupido!” e a volte “Pagliaccio!”, un’esclamazione forte: sapeva prendersi e prendermi in giro».
Nel libro definisce il suo «un padre cattivo»: non lo ha mai conosciuto. Perché non un cattivo padre?
«Spostare l’aggettivo dà meno importanza all’aspetto del genitore ma più all’atteggiamento, per rafforzare un mancato ruolo. Non si prese le sue responsabilità. Ma sono felicissimo così e non vorrei mai essere considerato una vittima. Sono stato fortunato, perché una madre che vale per due è sempre meglio di un padre che non vale niente».
Non ha la curiosità di incontrarlo adesso?
«Ma no, ormai è passato talmente tanto tempo che ne sarei deluso, anche dal punto di vista fisico. Avrebbe tra gli 85 e gli 87 anni, magari altri figli».
E lei che padre è?
«Autorevole senza essere autoritario».
L’ultima volta che ha sgridato Margherita?
«La sgrido poco. L’ultima volta è successo quando ha invitato a casa un’amica e hanno messo i piedi sui muri bianchi. Ma lì l’ho sgridata perché non aveva gestito da padrona di casa la presenza della sua amica».
I genitori
Mio padre non l’ho conosciuto, ma sono stato fortunato: meglio avere una madre che vale per due di un padre che non vale niente. Lei era la mia critica più grande
Cinquantantré programmi tv, secondo Wikipedia. Lei ne riconosce come suoi 28. Centinaia di interviste, da Gorbaciov a Mourinho, da Cossiga a Mike Tyson. Di quale è più orgoglioso?
«Tutti hanno intervistato tutti e non considero i personaggi come medaglie da mettere sul petto. Non mi ritengo un giornalista, non sono uno che fa domande per avere la verità, che poi non esiste, tanto meno in televisione. A me interessa giocare dialetticamente con questo o con quello. Ho sempre usato le interviste, al di là dell’opportunità di confrontarmi con personalità superiori alle mie, come pretesto per fare uno spettacolo: gli ospiti servivano a crearmi delle spalle ideali. Un’intervista molto raffinata la feci con Gesualdo Bufalino, un grande poeta siciliano amico di Sciascia. Andai nella sua casa a Comiso e parlammo di tante cose, di mafia, di morte, di poesia. L’hanno vista in pochi, la feci per Il laureato».
Ce ne sarà una che l’ha emozionato in modo particolare.
«La prima volta che incontrai Federico Fellini, al ristorante a Roma. Mentre parlavamo lui su un foglio schizzava il mio volto: Paolo Sorrentino è il suo miglior epigono. Poi, certo, Gorbaciov e Cossiga mi hanno emozionato, per i ruoli interpretati nella storia del mondo e dell’Italia. Ma anche Woody Allen: con l’aiuto di Tiberio Fusco seppi che non amava parlare della morte nelle interviste e allora gli feci solo domande sulla morte e su Bergman, uno dei suoi registi preferiti. Il mio divertimento fu vedere come cambiava espressione, mentre Costantino della Gherardesca faceva da interprete, per Markette».
Ha incontrato anche tanti politici.
«Da Nilde Iotti andai con un phon, da Prodi vestito da prete. Incontrai Tina Anselmi, la signora Fanfani, la moglie di Almirante. Ho avuto la fortuna non solo di veder cadere il Palazzo, ma anche di viverlo. Fui uno dei primi a proporsi con dei blitz, senza mai essere picchiato, ferito o denunciato. Le Iene, che sono bravissime, hanno un’aggressività diversa».
In quale conduttore americano si riconosce?
«Conosco troppo poco la televisione americana per rispondere. Sono molti quelli che si ritengono i David Letterman italiani. Io penso che di David Letterman ce ne sia uno solo e che in Italia non riuscirebbe a fare se stesso perché l’Italia, a differenza dell’America, non ha personaggi così generosi da andare a un talk show per fare solo show. Qui è talk e basta».
Ha portato un leone vero a Venezia, ha regalato un uovo di struzzo a Steven Spielberg (e la vostra foto finì sul «New York Times»). Come le sono venute queste idee?
«Il leone e l’uovo sono idee facili, quasi giochi di parole. L’idea televisiva è quando decidi la scena, il cast, la musica, il vestito, tutto, e magari sei partito da una parola. Quando mi chiesero Grand Hotel Chiambretti partimmo dal nome: gente che va, gente che viene. Tutto il resto fu giustificato dal titolo: la scenografia da Grand Budapest Hotel, le musiche, l’ascensore, i tavolini della sala da pranzo. Via via costruimmo il programma. Ho cominciato a fare questo mestiere con l’idea di portare in televisione quello che non c’era: la spontaneità, la strada, le persone. Internet ha cambiato tutto: ora non c’è niente che tu non possa trovare digitandolo su Google. Da quel momento ho cercato di fare meglio quello che c’era già».
Ha lanciato personaggi come Alfonso Signorini e Costantino della Gherardesca. Le sono grati?
«La gratitudine non è una missione televisiva. Credo che entrambi abbiano un buon ricordo di me, specie Signorini che ho frequentato televisivamente tantissime volte e ha preso spazi importanti dentro la mia seconda, terza vita televisiva. La vita di tutti è fatta di scelte, di orari, luoghi: io vivo a Torino, loro entrambi a Milano e non ho modo di incontrarli. Non è importante dire mi ha scoperto lui. Mi interessa più il rapporto di amicizia e questo, soprattutto con Signorini, è avvenuto».
Se Fabio Fazio la invitasse a cena?
«Vivo benissimo senza andarci a cena».
Quale spot l’ha divertita di più?
«Da torinese sono legato alla Fiat e mi piacerebbe essere di nuovo in qualche modo testimone di questa azienda internazionale che ha ancora le radici in città. Però come non ricordare gli spot della Bic, dove pubblicizzavo un oggetto diverso rispetto a quello per cui ero pagato. La prima campagna fu girata in 15 minuti, mentre i dirigenti dell’azienda si erano allontanati per bere un caffè. Avevamo chiesto l’autorizzazione a tutti gli altri marchi».
Il prossimo programma?
«Mi piacerebbe fare, finalmente, La repubblica dei bambini, con mia figlia ospite fissa o con un ruolo di disturbo rispetto a me».
Le idee
Da Nilde Iotti mi presentai con un phon Consegnai un uovo di struzzo a Spielberg, portai un leone vero a Venezia. Ma le vere idee nascono dal nulla
Chiudiamo con un’altra data: 15 ottobre 1967.
«Muore Luigi Meroni, il calciatore più promettente del Toro. Io avevo 11 anni e andai a salutarlo alla camera ardente, davanti la bara sbagliata. Da quel giorno sono granata».