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 2021  ottobre 18 Lunedì calendario

Intervista a Walter Siti


Torino. Se c’è un intellettuale che non teme di percorrere terreni scivolosissimi (anzi, quasi ci prova gusto) è Walter Siti. L’autore di Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli) ieri al Salone del Libro ha scelto di parlare dello scrittore Louis-Ferdinand Céline e non solo per il suo Viaggio al termine della notte ma anche perché accusato di antisemitismo, collaborazionismo, filo-nazifascismo.
Lei cita Jean-Paul Sartre che definì l’antisemita «un uomo che ha paura»: è così anche oggi, in questo tempo di razzismi 5.0?
«No. Oggi l’antisemitismo è piuttosto una “scorciatoia": si ricalcano vecchi solchi perché è più facile, quelli nuovi e decisivi sono ancora difficili da distinguere».
Quali sono quelli nuovi?
«Le ragioni, per lo più economiche, della rabbia che circola così diffusamente, assieme alle trasformazioni imposte dalla società del virtuale che ci obbliga a risposte veloci del tipo “bianco o nero”, che radicalizza il conflitto, non vengono affrontate dalla politica, sono troppo complicate da raccontare in una manifestazione di piazza, ad esempio, perché vanno ancora studiate. Così è molto più semplice prendersela con gli ebrei, un antico Leitmotiv che tutti conoscono».
Lei dice che la letteratura non dev’essere «l’altoparlante di ciò che già si crede giusto». Non deve aiutarci a migliorare: qual è allora il suo ruolo?
«Deve farci vedere che esistono sempre più punti di vista su un argomento e che le risposte a cui ci sta abituando questo mondo virtuale sono sempre superficiali. Ci sono cose che inconsciamente sappiamo ma consciamente non sappiamo di sapere. E attraverso la letteratura le riscopriamo. Quindi serve a relativizzare le verità».
Eppure oggi più che mai la letteratura è impegnata, ragiona per filoni e affronta temi come i diritti, il femminismo, il green.
«Ed è un grande errore. Agire per temi può essere un boomerang. L’impegno pro può diventare un pericolo contro».
Ci fa un esempio?
«La Capanna dello zio Tom. Quando fu pubblicato, nel 1851, il suo impegno antischiavista era evidente e radicale. Nel tempo però anche Tom è stato “visto” in modo diverso: come chi è pietoso verso gli schiavi ma non contesta mai il padrone. E così per molti neri dare “dello zio Tom” significa dare del collaborazionista, di uno che si rassegna. Oggi questo rischio lo vedo, ad esempio, nel Me Too».
In che senso?
«È un tema delicato, ma ho l’impressione che questo insistere così sulla fluidità faccia sparire le distinzioni biologiche di genere. Si parte da un principio buono – nessuno dev’essere trascurato e tutti hanno diritto a esprimere la propria voce – però poi si degenera. Mi ha colpito, ad esempio, Facebook: indica tutte le identità con le varie sfumature, ma maschio e femmina non ci sono più, devi aggiungerci “cisgender” per distinguere dal “transgender"».
Che dice allora di asterisco o schwa?
«Il primo è già superato perché è impronunciabile, lo schwa invece si riesce a dire».
Lo userebbe in un suo libro?
«No, a 75 anni non perdo tempo con questo. Per ora, poi, lo schwa apre problemi tanti quanti ne risolve: ad esempio non ho capito come si possa fare con gli apostrofi che definiscono il genere. Questi ibridi non funzionano, la lingua tende a semplificare».
E allora cosa suggerisce?
«Come dice un’amica femminista: siccome per secoli c’è stato il predominio del maschile, quando si dice per esempio “Emma, Tommaso e Giacinta sono andati”, ora possiamo utilizzare il femminile per altri sei o sette secoli».
Torniamo a Céline: come sarebbe accolto oggi?
«Sarebbe proibito».
Perché ci fa (ancora) così paura certa letteratura?
«Perché viviamo un tempo psicologicamente cagionevole. Si pensa che le persone debbano essere guidate e sorrette, perché fragili. In parte è vero: le vecchie narrazioni del mondo (Marx, la psicoanalisi) non funzionano e sembra tutto caotico. Allora si difendono i lettori come fossero adolescenti».
Ma, alla fine, siamo meno peggio di come crediamo di essere: lo dimostra anche il temuto D-Day del Green Pass...
«Infatti, penso che trattare le persone da adulti paghi. Si tratta di spiegare, non censurare».
Nel suo saggio dedica un capitolo a Roberto Saviano. Oggi lui dice che i suoi argomenti, come la mafia, non interessano più...
«Ha abbastanza ragione. E lui è molto cambiato».
In che modo?
«Mi sembra che dopo il Bacio feroce, ultimo tentativo di romanzo classico, abbia capito che il suo talento porta in altre direzioni, ha fatto libri diversi come In mare non esistono taxi, si è occupato di serie tv, ed ora esce la sua vita a fumetti».
È meno impegnato?
«Non credo, anzi. È un escamotage. Ciò che è accaduto era troppo grosso e terribile da raccontare, specie per un ragazzo di 26 anni. Ma ora è maturo. Se riesce a fare ciò che dice, cioè uccidere Saviano per far rinascere Roberto, sarà un grande risultato».
E a lei, Siti, cosa preoccupa?
«Solo una cosa: la vecchiaia». —