La Stampa, 14 ottobre 2021
Intervista alla prima hostess di Alitalia, nel 1947
Yvonne Girardello, 98 primavere, veneziana, è stata la prima assistente di volo italiana. Ed è stata lei ad accogliere i primi passeggeri che nel 1947 sono saliti a bordo degli aerei C47 e C46, i velivoli militari Usa lasciati a Capodichino, trasformati in aerei civili dal gruppo di piloti che fondarono la TransAdriatica, compagnia che sarebbe diventata Alitalia. Un’operazione talmente geniale che spinse gli americani a ricomprarsi i loro apparecchi. E ora che il marchio Alitalia sparisce commenta: «Finisce un’era».
Come è iniziata l’avventura?
«Ero impiegata alle officine aereonavali. Conoscevo tutti i piloti. Sono tornati in pochi dalla guerra. Quattro di loro mi hanno detto: abbiamo un lavoro per te. Vuoi volare? Sono andati a Capodichino e hanno portato a Venezia gli apparecchi meno mal messi e li hanno riparati. Dei gioielli, li chiamavano i muli dell’aria. Prima di assumermi mi hanno fatto fare il volo di battesimo, in picchiata sulla Laguna. Me la sono cavata e sono venuti a parlare con mia madre».
Per il consenso?
«Si certo a quell’epoca era un po’strano. Ma per fortuna mia madre ha acconsentito».
Le hanno dato una divisa?
«Ho dovuto farmela da me. Mi sono comprata la stoffa per la divisa. Era azzurra non blu. L’ha cucita mia madre che era la sarta più brava del Lido. Dovevo occuparmi io del bar e dei rifornimenti. Il primo volo è stato Venezia Padova Roma e ritorno. Abbiamo volato così per un anno e mezzo senza ricambio. Loro si davano il cambio io invece ero sempre lì. Dopo hanno assunto uno o due ragazze ma spesso stavano male e dovevo sostituirle. In quel periodo mi sembrava di essere diventata un lampadario, sempre in aria appesa».
E poi?
«È andata avanti così per cinque anni. Ho portato la divisa per dieci anni poi o dovuto smettere perché avevo male alle orecchie. Non c’era da scherzare, la pressione volando dal livello del mare a 6mila metri si fa sentire. Ho attraversato le varie sigle – dalle Flotte Unite fino all’Alitalia. Alle volte facevamo tantissimi decolli e atterraggi. In estate si partiva da Venezia e poi si andava a Gorizia, Milano, Pisa, Cagliari Napoli e ancor Cagliari. Era appena finita la guerra, le ferrovie erano un disastro e l’aereo una benedizione. Era faticoso ma ho tenuto duro. Avevo la passione e la salute».
Nel libro "Appunti di volo" racconta di aver fatto preparare a un convento di suore un calmante per i passeggeri.
«Mi dicono: adesso lei deve trovare un calmante per i passeggeri per i vuoti d’aria. A Santa Lucia alla stazione di Venezia sapevo che le suore producevano dei calmanti per lo stomaco. Si chiamava melissa. Le vendeva in boccette, tipo camomilla. Tanti avevano paura. Quando vedevo qualcuno agitato gliene offrivo un bicchierino».
E lei ha mai avuto paura? L’ha bevuta anche lei?
«Ne ho passate. Quando vai dentro una nuvola che è un po’arrabbiata, è piena di elettricità, si balla come in un mixer, un frullatore. Una volta abbiamo lasciato Roma per Venezia. Passando l’Appennino abbiamo trovato un "marubio" si dice così a Venezia. Vento contrario, cirri, cumuli, nembi, nuvole nere dove c’è di tutto. Tutti stavano male, ho consumato tutti i sacchetti e la melissa. A un certo punto vedo una signora calma che legge un libretto. Ma guarda che brava mi dico e le vado vicino, e sa cosa stava leggendo? La preghiera degli agonizzanti».