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 2021  ottobre 14 Giovedì calendario

Oggi l’ultimo volo di Alitalia

Leonard Berberi, Corriere della Sera
Cala il sipario su Alitalia. Questa versione di Alitalia. Dopo il fallimento degli investitori italiani privati e dei miliardari emiratini, dopo le trattative saltate con aviolinee che avrebbero cambiato il corso della storia e un esercito di commissari, la compagnia aerea tricolore che doveva essere «la più sexy d’Europa» chiude i battenti dopo 1.627 giorni di amministrazione straordinaria (e 1,8 miliardi di euro di soldi pubblici), lasciandosi dietro una scia di dossier ancora aperti. Ma soprattutto facendo rispuntare poche ore dopo i suoi elementi distintivi attraverso un’altra società pubblica, Italia Trasporto Aereo, che si doterà degli stessi aerei, della stessa livrea, delle stesse divise, dello stesso codice di volo, dello stesso identificativo di biglietto e, con ogni probabilità, dello stesso brand, quella «A» tricolore che negli ultimi giorni ha attirato insulti dei viaggiatori per i collegamenti annullati e un fiume di post commossi dei dipendenti e anche di passeggeri. 
L’ultimo volo di «Alitalia-Sai in a.s.» AZ1586 è previsto oggi in decollo alle 22.05 da Cagliari con arrivo alle 23.10 a Roma Fiumicino: a trasportare i 177 viaggiatori prenotati sull’Airbus A320 («Primo Levi») sarà il comandante Andrea Gioia, 15 mila ore di volo e dal 1989 in azienda. Sarà anche l’ultimo viaggio della continuità territoriale sarda: la connettività dei prossimi sette mesi tra Cagliari, Olbia, Alghero e Milano e Roma saranno gestiti dalla low cost spagnola Volotea. 
Se nella Capitale si chiude la stagione di Alitalia (e i suoi 10.500 dipendenti), a Milano si apre quella di Ita (con 2.800 assunti): la newco decolla domani alle 6.20 con il volo AZ1637 Linate-Bari con un altro A320 (preso da Alitalia), spedito in Irlanda e riverniciato con la scritta «Born in 2021» in attesa di capire che cosa succederà al marchio. 
E proprio il brand è uno dei nodi. Dopo alcune frizioni i commissari e i vertici di Ita (il presidente Alfredo Altavilla e l’ad Fabio Lazzerini) sarebbero alle battute finali della trattativa dopo che le due fasi della gara sono andate deserte, spiegano al Corriere fonti ministeriali. La newco ha bocciato il prezzo iniziale del marchio (290 milioni), i commissari avrebbero detto «no» ai 50 milioni offerti da Ita. L’accordo si dovrà trovare in questa forbice, magari da affiancare alla cessione del ramo «aviation» (aerei e slot) che fino a ieri sera non risultava formalizzata in un contratto. 
C’è poi il tema dei 6,1 milioni di iscritti a MilleMiglia (con in pancia 45 miliardi di miglia accumulate): il programma fedeltà non può andare a Ita, ma fonti fanno trapelare che si sta ragionando a un modo per tenerlo in vita anche dopo lo stop di Alitalia. Proseguono la loro attività l’handling e la manutenzione che dovranno fornire i servizi a Ita in attesa di essere anche loro ceduti. 
L’altro fronte caldo – al netto di quello lavorativo oggetto di trattativa politico-sindacale – è quello dei rimborsi ai circa 250 mila passeggeri della vecchia compagnia. Perché stasera questa Alitalia si ferma. Per ripartire – più piccola, più leggera e forse più profittevole – domani.

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Marco Zatterin, La Stampa
Stasera l’ultimo volo, un Cagliari-Roma, decollo alle 22, sempre che sia in orario. Il primo fu da Torino per Roma e Catania, il 5 maggio 1947, su un trimotore Fiat F12E riverniciato di fresco. Biglietto a 7000 mila lire, che oggi sarebbero 145 euro e 53 cent. Era il principio di un’epopea che a lungo fu un trionfo, vent’anni abbondanti in cui l’Alitalia – che riuscì persino ad essere il settimo vettore mondiale e il terzo europeo – diventò il biglietto da vista di un Paese dinamico in preda alla ricostruzione e al boom economico. «Dove c’è Az c’è casa», potevano pensare i viaggiatori della penisola, a ragione, per giunta. I colori erano familiari, patriottici persino. L’equipaggio sorrideva gentile, il servizio era di classe, piacevano hostess e steward dall’abbronzatura semipermanente e l’accento romano che col tempo avrebbe fatto "molto Rai", dunque nuovamente "casa".
Finché durò la Repubblica numero uno, e non si alzò il vento della globalizzazione destinato a scatenare la concorrenza planetaria low-cost, nessuno pensò che quella Grande Bellezza costasse più cara del previsto e consentito. Gli "Arrivederci" che sottolineavano l’atterraggio sembravano non poter finire. Erano gli aerei del papa e delle star del cinema. Eppure, per ogni minuto di volo c’era sempre un prezzo extra da pagare, una spesa che si scaricava su conti dell’Iri, vale a dire sulle tasche di tutti.
Lo hanno detto in molti, ma Romano Prodi lo ha fatto meglio. Lui, che l’Alitalia l’ha avuta in dote come presidente dell’Iri e capo del governo, avvertì che non sarebbe stato possibile alcun risanamento «senza sacrifici e senza una strategia per il futuro». Ma nel tempo i primi sono stati fatti, non bene e in ritardo. E la seconda non si è mai vista con precisione e lungimiranza, persa nel palleggio inconcludente del lungo raggio contro corto raggio, di Malpensa contro Miami e simili disfide, senza contare i capricci politici, forieri tra l’altro dello strano volo Roma-Albenga di Scajola ministro.
A furia di provarci, il professore bolognese una soluzione l’aveva trovata nella primavera del 2008, convincendo Air France a farsi carico del paziente italiano dimagrito. Era ovvio che bisognava crescere di taglia globale per non continuare a buttare soldi nello scarico di piani industriali obsoleti. Tuttavia, la politica nicchiava attaccata alla flebo del debito pubblico. C’era stato duello in parlamento e sui giornali, ma ora era quasi fatta, dopo 12 anni di tentativi, in un mercato ricco di turbolenze. Ma non successe.
Una contabilità affidabile ha stimato che tra il 1974 e il 2017 Alitalia ha accumulato perdite per 9 miliardi e, nel frattempo, lo Stato ne ha sborsati 10,8 per tenerla in cielo. La metà di questo tesoro è stato bruciato dopo il 2008, quando cioè il governo Berlusconi ha rotto la trattativa con Parigi e chiamato a bordo i presunti salvatori della Cai, Compagnia aerea italiana. «Amo l’Italia, volo Alitalia», garantì il Cavaliere, anche se la seconda parte del messaggio non era proprio vera, visto il debole per i voli privati.
Ci vinse comunque le elezioni, il condottiero di Arcore, promettendo agli elettori che non avrebbero perso la loro compagnia di bandiera, venduto quale simbolo eccelso di sovranità nazionale. Li spaventò col fantasma dello straniero, ebbe gioco facile a garantirsi il consenso contro i francesi, quelli che sembrano piacerci solo quando s’incazzano. Spiegò che Air France avrebbe portato i turisti a vedere i castelli della Loira e non le nostre belle città d’arte. Come in altre occasioni, fu un efficace pifferaio di Hamelin.
S’iniziò la stagione fallimentare degli aviatori coraggiosi (la Cai di Tronchetti, Colaninno, Angelucci & Co.), compagine eterogena che in breve costrinse lo Stato a una nuova capriola dopo aver scommesso sulla Milano-Roma mentre partiva l’alta velocità. Nel 2014, il fardello finanziario fu spostato sulle spalle arabe di Etihad con la complicità delle Poste. Le idee non erano proprio chiare, non poteva funzionare e non funzionò. Così nel 2017 Alitalia è rifallita ed è tornata dal Pantalone pubblico. La statistica rivela che da 1996 al 2018 lo Stato ha partecipato a 16 aumenti di capitale, mentre la redditività della compagnia precipitava nel rosso (salvo alcuni esercizi nel 1997-1999 e nel 2002, dopati dal denaro pubblico). Chiamatele, se volete, privatizzazioni.
Comunque sia, nel 2017 la società si è ritrovata nel limbo dell’Amministrazione Straordinaria, affidata a tre commissari – Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari –, con un nuovo esborso ponte di 900 milioni senza il quale sarebbe saltato tutto (si è poi saliti a 1,3 mld). Ci sono voluti quattro anni perché la Commissione Ue riconoscesse che si trattava di aiuti di Stato non accettabili, ma nel frattempo il cambio dell’assetto aziendale e la nascita di Ita hanno creato le premesse perché questi soldi non ritornino più nelle casse della Repubblica. Nel frattempo, la compagnia decollava ogni giorno come un albatros ubriaco, pagando leasing astronomici e non riuscendo a bilanciare i conti con un traffico sempre più compresso (anche senza pandemia).
Era impossibile che i commissari convincessero un acquirente a diventare Mr. Alitalia, soprattutto alla luce dei terremoti sociali e politici, amplificati per disgrazia dal Covid-19. Era come frustare un cavallo morto e, del resto, l’ultima è che non si è trovato nessuno pronto a pagare 296 milioni per il marchio Alitalia.
Lo Stato ha cucito l’ennesima pezza nella primavera 2020. Il governo ha imbustato il virus della compagnia di bandiere nel decreto "Cura Italia" e ha predisposto il battesimo del volo per una nuova società interamente sua controllata che esce dall’hangar domani all’alba sulla Linate-Bari. «Non sarà un altro carrozzone pubblico», ha promesso un anno fa il premier Giuseppe Conte. Vedremo. Nel 2020 il costo per ora volo di un Airbus 320 coi colori dell’Alitalia era di poco inferiore ai 9 mila euro, contro i 5.400 del suo principale concorrente su un Boeing 737. Adesso, chi lo sa?
L’Alitalia muore, viva l’Ita. Tutto ricorda la storiella di Noè che, finito il diluvio, guarda i compagni di viaggio e dice «ora dobbiamo proseguire con le nostre gambe». La nuova e dimezzata compagnia deve fare lo stesso. La sostengono 1,4 miliardi dell’ultima tranche giunta dalle nostre tasche: un conto neanche spannometrico eleva i 10,8 miliardi del 2017 a 13 miliardi di denari bruciati. Brutto presagio?
In effetti la discontinuità pare più aziendale che altro. Il cammino è gravido di incertezze. Le strategie sono in evoluzione, se si vuole essere buoni come si deve con chi cerca di scalare l’Everest a mani nude. Cambiare si deve e non si sa ancora come. Col dolore inutile della nostalgia, la consapevolezza del danno sociale e dello spreco nazionale perpetrato, si prova un sacro terrore che alla crisi segua un’altra disfatta. C’è più speranza che certezza per un lavoro sporco che qualcuno ha dovuto fare. A chi resta, vanno gli auguri di buon lavoro e l’auspicio di un "Arrivederci". Prospettiva sulla quale, al solito, si accettano più scommesse che previsioni.