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 2021  ottobre 13 Mercoledì calendario

Il caso dell’ultimo monologo di Dave Chappelle

Poiché non esistono battute che non offendano nessuno, c’è un solo dettaglio che ti garantisce la sopravvivenza, se sei un comico nell’era della suscettibilità: il talento. Non quello minimo, buono per partecipare a un programma televisivo o per fare dei reel su Instagram. Quello smisurato, che ti garantisce che, quando qualcuno si offenderà, a chi ti paga le battute converrà continuare a pagartele: saranno sempre di più quelli che vogliono ridere di quelli che minacciano disdette di abbonamenti a piattaforme e mancati acquisti di biglietti che non avrebbero acquistato comunque.
L’ultimo giorno del 2017, su Netflix arrivò un monologo di Dave Chappelle. Dave Chappelle è forse il più lucido tra i monologhisti americani (oscillo tra la convinzione che sia lui e quella che sia Chris Rock; comunque, come per il basket, è una gara tra afroamericani). Tre mesi prima Netflix aveva messo on line un altro suo monologo, e Chappelle aveva annunciato che quello era l’ultimo (tenete a mente questo dettaglio).

Erano i primi mesi del MeToo, e Chappelle aveva cose da dire, una delle quali a una tizia che aveva brasato la carriera di Louis CK accusandolo d’essersi fatto una sega in sua presenza. Ce n’era più d’una ad averlo accusato della stessa cosa, ma quella su cui s’era concentrato Chappelle diceva che la sega CK se l’era fatta al telefono. «Bitch, non sei capace di riattaccare?». Erano, le nostre sul divano (e credo anche quelle nel locale in cui Chappelle aveva registrato), risate di sollievo: finalmente qualcuno faceva notare l’elemento di fideismo nella crociata in corso. Of course nessuno deve molestarti, but maybe se ti molestano al telefono riattacca.
Un anno dopo CK era ancora tra gli impotabili (tra un po’ torniamo sul perché: non c’entra solo la differenza tra tirarsi giù i pantaloni e fare una battuta, no), e Netflix annunciava i monologhi più visti dai suoi abbonati nel 2018. Non c’era Nanette, il monologo della lesbica autistica che la critica amava amare; c’era, al primo posto, Chappelle. Che probabilmente anche gli estatici recensori di Nanette erano corsi a guardare di nascosto, come il porno di quand’eravamo piccoli, per rifarsi del fatto che l’australiana non facesse ridere mai. Una volta si nascondevano i giornaletti zozzi dentro Sorrisi, adesso ci si fa imprestare un account per guardare le impresentabilità che ci fanno ridere.

È il 2021, e Chappelle è tornato. Secondo me non col suo monologo migliore, ma non è rilevante. Quel che è rilevante è che The Closer è il modo in cui ha deciso di rispondere a chi dice che ce l’ha con le donne (ha controllato sul dizionario la definizione di femminista: gli corrisponde, quindi che vogliono) e a chi dice che è transfobico, per aver osato fare battute su LGBT e altre consonanti.
Quel che è rilevante è che è diventato immediatamente il talk of the town. Quelli che l’hanno amato (Andrew Sullivan, per dirne uno) hanno scritto cose su The Closer che mi sono sembrate più interessanti del monologo stesso. Quelli che l’hanno odiato hanno fatto quel che si fa ora quando qualcosa ci dispiace: dire che Netflix doveva vergognarsi e toglierlo dalla piattaforma.
E quindi lunedì è arrivata – non ufficialmente: una nota aziendale per uso interno che, guarda un po’, è finita all’esterno – la risposta alle richieste di cancellazione, che chiunque osservi il capitalismo poteva prevedere: perché credete che, a parità di sdegno sociale, nessuna casa editrice angolofona revochi la pubblicazione di Harry Potter? Forse Hachette si era fatta due conti e aveva capito che le memorie di Woody Allen non avrebbero venduto altrettanto?
La risposta arriva dall’amministratore delegato, Ted Sarandos, e fa così: Chappelle è uno dei più popolari comici monologhisti che ci siano oggi, e noi abbiamo con lui un contratto di lungo corso. Il suo ultimo speciale, Sticks & Stones, che pure causò polemiche, è il più visto, il più duraturo, e il più premiato monologo che abbiamo mai trasmesso».
Breve divagazione prima di tornare a Sarandos. In Stick & Stones, 2019, Chappelle fa una tirata d’un minuto difendendo la libertà delle donne di scegliere se abortire senza consultarsi con nessuno, che si conclude con la più meravigliosa torsione comica dello slogan «my body, my choice», versione americana di «l’utero è mio». Certo che devi essere libera di scegliere se ammazzarlo e, se invece decidi di farlo nascere, io devo essere libero di non mantenerlo. My money, my choice. Il portafoglio è mio e me lo gestisco io. Non conosco neanche un’abortista che si sia offesa, ma forse è che frequento solo abortiste che non aspirano agli alimenti.
Torniamo al 2021. Sarandos prosegue dicendo che «non trasmettiamo su Netflix titoli che incitino all’odio e alla violenza, e non crediamo che The Closer lo faccia. Particolarmente nei monologhi comici, la libertà artistica ha ovviamente parametri diversi da quelli che permettiamo internamente, giacché da una parte l’obiettivo è intrattenere il pubblico e dall’altra è creare un ambiente di lavoro rispettoso e produttivo». Che l’amministratore delegato d’una multinazionale debba spiegare una tale ovvietà a intellettuali sdegnati che da giorni cianciano di pericolosi contenuti omofobi e transfobici nel monologo di Chappelle dice, del livello di scemenza collettiva cui siamo arrivati, cose che avrei preferito continuare a ignorare.
Ma, d’altra parte, sono secoli in cui gente pagata per pensare sostiene seriamente che, se qualcuno ammazza o picchia una persona trans, lo fa grazie al brodo di coltura dei comici. Cioè che la battuta di Chappelle è propedeutica al tizio che t’accoltella perché hai i baffi e porti i tacchi alti. Come se il principale brodo di coltura di qualunque violenza non fosse la mancanza di senso dell’umorismo. Come se la cosa più pericolosa di questi tempi non fossero i moralizzatori che hanno deciso che ridere di me sia più grave che licenziarmi o accoltellarmi.
Prima del 2019, la migliore ambiguità comica sull’aborto l’aveva concepita Louis CK. Trascrivo da 2017, il monologo che Netflix distribuì sei mesi prima che le seghe rendessero CK un impresentabile senza più una carriera. «Credo che non dovresti abortire, a meno che tu non voglia. Nel qual caso farai meglio a farlo. Seriamente: se devi abortire, sarà meglio che ti sbrighi. Non procurarti l’aborto che ti serve è come non fare la cacca, ecco che livello di disagio è. Come non fare la cacca. Penso che abortire sia esattamente come fare la cacca. Oppure no. O lo è, o non lo è. O è fare la cacca, o è uccidere un bambino. Una sola di queste due cose. Non ce ne sono altre. Quindi, se ti dà fastidio sentir dire che è come fare la cacca, vuol dire che pensi che sia come uccidere un bambino». Non conosco neanche un’abortista che si fosse offesa, ma è pur vero che non frequento prescrittiviste dell’aborto come trauma e dolore.
CK è stato tra i primi – forse addirittura il primo, sicuramente il più rilevante – comico fatto fuori dalla damnatio memoriae di questo quadriennio di moralismo maccartista. Perché si è tirato giù i pantaloni, certo. Ma soprattutto perché, invece di dire «sarà mica responsabilità mia se prima siete così fesse da dirmi “procedi pure con la tua sega” e poi vi pentite», si è scusato.
Perché la tua carriera sopravviva a questi tempi sbandati, devi fare come Fiorello, come Chappelle, come Zalone. Non avere i social, o comunque non usarli per scusarti e spiegarti.
I suscettibili sospirano di sollievo perché, all’inizio di The Closer, Chappelle dice che questo è l’ultimo monologo per Netflix. Potrebbe essere vero: se ne andò, molti anni fa, al culmine della gloria, abbandonando una serie che portava il suo nome. Lo ricorda in The Closer, quando parla delle attrici di Time’s Up che si sono vestite di nero ma mica hanno licenziato i loro agenti complici del sistema patriarcale hollywoodiano. «Chi sono io per dirlo? Sono quello che è sceso dall’autobus lasciandoci su cinquanta milioni di dollari». Ma potrebbe essere come nel 2017: che dice così, e poi tra tre mesi torna. Saremo ancora qui ad aspettarlo: gli aspiranti Torquemada, ma anche quelli che vogliono solo poter continuare a ridere.