Non le capita mai di giudicare i personaggi che interpreta?
«Mai. Cerco di portare la verità, ma anche nel peggiore dei casi parto sempre dal lato umano».
"Christian" racconta Roma ai margini, con una fotografia dark.
«Abbiamo girato a Corviale, proprio al "serpentone", e a Vigne Nuove, luoghi che piacciono a Benjamin, il direttore della fotografa: è un’architettura piena di spigoli, che non si capisce».
Lo interpreta senza giudicarlo, ma qualcosa penserà.
«Christian è violento perché gli chiedono di esserlo, si vede nella scena in cui pesta il barista. Dice: "Basta così", fa il suo lavoro, non si accanisce. Christian è ai margini, si scoprirà perché ha le stimmate e perché acquisisce questa sorta di potere. Gli succedono le cose, non è neanche un arrivista, è molto semplice come persona. Non ha velleità. Ho ringraziato subito Lodovichi, Occhipinti e Sky per l’opportunità, perché è un bel personaggio ricco di sfumature».
Ammetterà, non è una serie consolatoria.
«È vero, è poco ruffiana. Racconta un mondo, la periferia, i rapporti di forza. Non cerca di piacere, va per la sua strada che è originalissima. Il personaggio di Claudio Santamaria vive una sorta di frustrazione, gli sarebbe piaciuto avere il dono di Christian, le stimmate sono potenti».
Come si lavora a un personaggio estremo?
«Cercando di restituirgli verità, in questo caso ha una sua fragilità e sono contento. Sono tutti bravi, il regista è stato eccezionale a costruire l’atmosfera».
Christian non conosce altro linguaggio che quello della violenza?
«Non è così violento, va a fare il recupero crediti ma non è sadico. Se pensa a Simoncino o al marito di Fortunata, avevano una sorta di piacere a fare del male. Christian no, fa quello che fa perché deve mettere paura. In alcune scene, paradossalmente, la crudeltà si stempera nell’ironia».
Vuol dire che alla fine la violenza nasconde la debolezza?
«Nel caso di Christian sì, credo che sia molto umano, gli diamo tante sfumature e spero che lo spettatore gli voglia bene. È molto bella anche la metafora religiosa. Vado oltre l’apparenza del personaggio.
Quando ho girato Dogman con Garrone, ad esempio, ho pensato che Simoncino avesse potuto subire violenze da piccolo. Molti bulli sono stati a loro volta bullizzati».
Lei è nato a Tor Bella Monaca.
Com’era?
«Io sono del 1979, non stavamo nei palazzoni, sono cresciuto in una casetta col giardino con nonna e zia.
All’epoca era così, erano case di due o tre piani in cui c’era qualcuno della famiglia. Papà, medico, invece è di Prati, di via Germanico, un bel mix.
Ho fatto il liceo classico al Mamiani, mi sono "sborgatizzato". Ma so stare con tutti. Sono cresciuto con i cugini, giocavo sotto casa, eravamo molto seguiti».
È molto legato alla sua romanità?
«Tantissimo. La mia bisnonna Jole era di via della Scrofa, parlava quel bel romanesco alla Aldo Fabrizi.
Nonna invece era dei Quartieri spagnoli a Napoli, altro bel mix.
Nonno, che da giovane guidava gli autobus, poi aveva fatto l’autista in Rai, conosceva Roma benissimo. Da piccolo mi faceva ascoltare Gabriella Ferri e Franco Battiato».
Ha un sogno?
«Suono la chitarra da quando ho 12 anni, suonavo con l’Orchestraccia.... Due anni fa ho smesso per motivi lavorativi. Ma suono sempre, amo la musica. Vorrei tanto fare uno spettacolo a teatro in cui canto e suono. Ho già il titolo: One Fish show ».