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 2021  ottobre 13 Mercoledì calendario

Intervista alla scrittrice Marilynne Robinson

Non è semplice fronteggiare un’opera come Jack , dell’americana Marilynne Robinson (1943). Di lei s’era appena parlato per un’ipotesi di Nobel e si può capirlo, perché ha una prosa alta e assoluta, astrattamente armoniosa. Proposto da Einaudi nella splendida traduzione di Eva Kampmann, il suo Jack è un oggetto che rischia d’inquietare. Qualcosa di divinatorio e di ancestrale lo percorre. Ha la tensione paradigmatica di una vicenda biblica.
Marilynne Robinson è nota grazie a tre libri usciti tra il 2004 e il 2014 e ambientati nella cittadina inventata di Gilead, in Iowa, lo Stato dove lei stessa vive da tempo e dove insegna scrittura creativa. S’intitolano Gilead , Casa e Lila , e il loro successo è stato sospinto molto da un entusiastico endorsementdi Barack Obama. Jack aggiunge un quarto tassello alla gloriosa epopea. Lungo la precedente trilogia, collocata negli anni Cinquanta ma con numerosi salti all’indietro nella storia, il destino della famiglia del reverendo congregazionalista John Ames s’intrecciava con quello della famiglia di Robert Boughton, reverendo presbiteriano. Il padre e il nonno di John si erano schierati con gli abolizionisti durante e dopo la guerra di secessione, e nella trama c’eravamo già imbattuti in Jack, figlio di Boughton e tornato a casa dopo vent’anni d’assenza confessando i trascorsi di una storia d’amore lacerata dalle leggi segregazioniste.
Ora il nuovo romanzo Jack visita a ritroso il periodo in cui il protagonista, peccatore sfuggente a redenzioni, s’era innamorato di Della, una ragazza nera di elevato status sociale. All’epoca Jack s’arrabattava tra elemosina ed espedienti, affogandosi nell’alcol. L’intesa della coppia prende il via in un cimitero, fra lapidi e statue funerarie.
«È una storia d’amore, con le enormi complessità che questo implica», avverte Marilynne Robinson facendosi intervistare via Zoom dagli Stati Uniti. Ha un viso tondo e lunare incorniciato da lunghissimi capelli bianchi da "nativa americana". Venerdì, sollecitata dalle domande di Claudia Durastanti, parteciperà online al Salone del Libro di Torino.
Signora Robinson: il suo lavoro è un confronto persistente con la storia degli Stati Uniti e il Nuovo Testamento?
«Osservo i modi in cui la storia resta o si smarrisce. Quando andai a vivere in Iowa feci ricerche sul territorio, trovando nel suo passato storico un folto movimento di abolizionisti e di grandi educatori e teologi. Quell’utile indagine prescinde dall’"americanità" e ha a che vedere con gli sforzi che dobbiamo compiere ovunque per identificare una maniera eticamente tollerabile di esistere sulla Terra».
Il suo grande affresco americano si chiude con "Jack" o andrà avanti?
«Mi sono abituata a pensare nei termini di quel mondo e non sarei sorpresa se dopo Jack nascesse un altro libro appartenente alla stessa dimensione».
Dimensione peculiare, grondante d’anima e di trascendentalismo.
«Nelle mie narrazioni seguo i rami di una famiglia i cui membri sono eredi di una forte tradizione calvinista. Esploro teologicamente e storicamente l’etica e le motivazioni di una fetta d’umanità di questo Paese».
Lo fa in un tempo sospeso e remoto, ma anche attuale.
«Il tempo è un mistero. Come diceva William Faulkner, il passato non passa. Plasma il presente e le nostre scelte. Spesso gli individui non ne sono coscienti poiché hanno impulsi così interiorizzati che li percepiscono come propri, senza tenere conto del potere dei ricordi assorbiti da generazioni antecedenti».
Ha indicato i suoi modelli in Emerson, Thoreau, Emily Dickinson… Siamo in pieno trascendentalismo ottocentesco. Si sente vicina alla loro poesia?
«Penso che moltissima gente condivida la mia immensa fascinazione per la poesia, e in Jack descrivo come Jack e Della arrivino a costruire un patrimonio comune a partire dai loro gusti poetici. Emerson, Thoreau e Whitman scrivono in base a una profonda convinzione della sovranità della mente individuale. Sanno che la mente interagisce con una realtà trascendente. Della loro attitudine ho fatto la mia strategia metaforica».
La sua scrittura non esplicita le emozioni dei caratteri che l’attraversano. Il lettore deduce situazioni e temperamenti dai dialoghi che connettono le figure del racconto. Vedi l’intensa discussione su "Amleto" della coppia centrale di "Jack" nel cimitero. Uno scambio verbale lucente che pare evocare un play beckettiano.
«A volte mi sento un piccolo Beckett. Mi piace catturare le persone in quanto essenze. Non m’interessa in che cosa si siano laureate o cosa facciano professionalmente o roba del genere. Elimino sovrastrutture. Guardo come lavora la mente della gente sbarazzandomi dei nonsense socialmente acquisiti. Cerco ciò che i personaggi generano da soli senza imporre una mia concezione. Se uno di loro evade dal controllo del creatore, significa che quest’ultimo ha fatto un buon lavoro».
Mentre oggi la religione sfocia spesso nel fanatismo e nel populismo, i suoi excursus letterari danno spazio a principi che paiono emergere da un cristianesimo solido e puro. La religione cristiana può essere una lente della realtà?
«Sappiamo quanto il cristianesimo abbia avuto svolte brutte e crudeli, e ciò accade di frequente nel mio Paese adesso. Ma nel mio corpus di storie ho voluto addentrarmi in una fase americana bella ed eroica, quando grazie a un’etica cristiana di speranza e condivisione si edificavano chiese e ferrovie e si fondavano università integrate in termini di razza e genere. Esperimenti positivi sono stati compiuti in città simili a Gilead, e per esempio l’insegnamento di Marcus Garvey (scrittore e sindacalista che lottò in nome della qualità di vita dei neri negli Usa, ndr) è importante per il pensiero coltivato dalla famiglia di Della.
Tutto ciò fu massacrato dal diffondersi delle leggi Jim Crow, funzionali a una feroce gerarchia razziale. Il loro effetto è stato orribile e un momento meraviglioso è stato seppellito sotto i ghiacci. Tra gli esiti di tale perdita c’è la cattiva religione».