Corriere della Sera, 13 ottobre 2021
Anticipazione dell’autobiografia di Billie Jean King
(Anticipazione da “Tutti in gioco” di Billie Jean King, che esce domani per La Nave di Teseo)
All’inizio fu in qualche modo divertente vedere quanta straripante energia Bobby profondesse per promuovere la nostra sfida. Alcune cose erano una messinscena, e mi disse che faceva tutto parte della promozione. Continuava a ripetere le solite battute irritanti di sempre: «Vi dirò perché vincerò. Lei è una donna e non hanno stabilità emotiva! Rimarrà senza fiato, proprio come è successo a Margaret Court… L’uomo è superiore!».
Altre cose che Bobby fece furono più difficili da ignorare. Il giorno prima della nostra conferenza stampa finale, si presentò all’allenamento indossando una maglietta con due buchi sul petto per mostrare i suoi capezzoli e poi scherzò con i giornalisti dicendo che a suo parere la maglietta sarebbe stata meglio addosso a me. Con questa superò il segno.
Sapevo che alcune persone credevano realmente in certe battute sessiste che lui andava blaterando e io volli essere convincente e chiara: non era accettabile. Il giorno prima della partita, quando uno dei giornalisti durante la nostra conferenza stampa congiunta domandò che cosa pensassi di Bobby, dissi la verità: «Quel buffone denigra le donne… Lui mi piace per molti aspetti, ma lo odio perché denigra le donne, non degnandoci di credibilità come avversarie».
(...) La gente era divisa su chi avrebbe vinto e ne discuteva a tavola, davanti ai distributori automatici nei posti di lavoro, nei saloni di bellezza e nei bar. Furono piazzate moltissime scommesse. I mariti promisero che se avessi vinto io si sarebbero occupati per una settimana di stirare; i capi promisero che avrebbero preparato il caffè per le loro segretarie. Furono organizzate visioni comunitarie e le persone si divertirono. (La mia compagna, Ilana, in quel periodo era una giovane professionista del circuito, e assistette alla partita a casa di amici a Long Island).
I media continuarono a interpellare esperti per i pronostici. Eleanor «Teach» Tennant, l’ex allenatrice di Bobby, disse alla stampa che Bobby era un tale genio nel creare i colpi: «Conosce l’aria dentro la pallina da tennis». Quando incontrai Bud Collins, disse: «Ho scommesso su Riggs». Mi fece male, ma mi ferì ancora di più quando nel bagno del nostro torneo di Houston sentii alcune giocatrici dello Slims dirsi a vicenda di volere che io vincessi ma che pensavano che Riggs mi avrebbe battuto. Non si erano rese conto che fossi anche io lì fino a quando non uscii da uno dei cubicoli, le guardai senza dire una parola e uscii dopo essermi lavata le mani.
Molti credevano alle battute sessiste che lui blaterava, io volli essere chiara: non era più accettabile
Mentre ero impegnata a studiare una strategia con Dennis Van der Meer e a guardare all’ultimo minuto la registrazione della vittoria di Bobby contro Margaret Court, il mio avversario continuò a giocare partite con le celebrità nel pallone da allenamento per 100 dollari o più a set. Nel corso degli anni Bobby aveva dato lustro alla sua fama di spaccone organizzando trucchetti come piazzare trentadue sedie sul campo, giocare con le galosce, tenere al guinzaglio un cane mentre giocava. E tuttavia vinceva. A Houston vendeva spille con lo slogan «Pigs for Riggs».
Eravamo totalmente diversi. Una buona fetta della mia preparazione a una partita – o a un discorso o a qualsiasi evento, in realtà – è stata sempre analizzare in anticipo tutto quello che sarebbe potuto accadere. Ogni dettaglio è per me importante, dall’avere un paio di scarpe di riserva al prendere confidenza con il luogo. Per la Battaglia dei Sessi specialmente non lasciai nulla al caso. Mi misi d’accordo con un custode perché mi facesse entrare nell’Astrodome il giorno prima della partita e mi facesse fare un giro. Lo stadio da fuori sembrava un enorme disco volante. Era stato soprannominato l’Ottava meraviglia del mondo quando aveva aperto nel 1965 perché era stato in assoluto il primo stadio coperto di queste dimensioni. Dentro era uno spazio cavernoso, pieno di eco. Sapevo che mi sarei dovuta abituare all’illuminazione, al senso della profondità e a individuare velocemente la palla tra le travi di ferro che componevano il soffitto alto 63 metri. D’altronde, lo stesso avrebbe dovuto fare Bobby. Il fondo del campo Sportface su cui avremmo giocato sarebbe stato steso a un’estremità del palazzetto, al centro del diamante del baseball degli Houston Astros, tra la prima e la terza base. Ricordai a me stessa che non avrei avuto il lusso di potermi abituare al campo perché sarebbe stato preparato il giorno stesso della nostra partita. Ma sarebbe stata la stessa cosa anche per Bobby.
Proprio come il mio rituale al Centre Court di Wimbledon, mi arrampicai fino ai posti in ultima fila e presi visione dell’Astrodome da lassù. Passai molto tempo stando semplicemente seduta lassù, pensando a quello per cui avrei giocato e quanto lo stadio sarebbe stato carico di tensione la sera in cui avremmo giocato. Prima di altre partite di solito pregavo: «Ti prego, Signore, permetti a entrambi di giocare al massimo delle nostre possibilità». Questa volta, tagliai corto e dissi: «Ti prego, Signore, fai che io vinca».
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