il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2021
Il carteggio tra Hermann Broch e Hannah Arendt
Può darsi un’amicizia spirituale, intellettuale, intensamente tenera e purtuttavia non fisicamente erotica tra un uomo e una donna in pari grado cerebrali e sensuali?
Lui, scrittore e critico letterario sessantenne, è l’uomo più affascinante del mondo degli esuli ebrei tedeschi in America; lei, quarantenne, è tra i più grandi filosofi del Novecento.
Hermann Broch e Hannah Arendt si conoscono nel 1946 nell’appartamento newyorkese della loro comune amica Annemarie Meier-Graefe. Lei gli confessa di essere rimasta colpita dal suo La morte di Virgilio, che reputa al livello delle opere di Kafka; lui, che non sa resistere alla vanità, si sente commosso dall’idea di essere finalmente compreso. Il loro carteggio – oggi edito da Marietti, a cura di Roberto Rizzo e tradotto da Vito Punzi – durerà fino alla morte di lui, avvenuta nel 1951 per un attacco di cuore.
Lui prova subito a sedurla, è allenatissimo al flirt, che esercita preferibilmente nei confronti di segretarie e traduttrici. Ma lei è Hannah Arendt, la futura autrice de Le origini del totalitarismo, sposata a Heinrich Blücher (aveva divorziato da Günter Anders), già folgorata dall’amore fatale, nel 1924, da studentessa ebrea diciottenne, per il suo professore Martin Heidegger, il filosofo antisemita che nel ’33, diventato rettore all’Università di Friburgo, giurerà fedeltà a Hitler.
In una delle sue ultime lettere, lei aveva scritto a Heidegger: “Ciò che voglio dirti adesso non è altro, in fondo, che un’esposizione pura e semplice della situazione. Ti amo come il primo giorno – tu lo sai e io l’ho sempre saputo, anche prima di questo nostro incontro”. In Hannah lottano incessantemente il sentimento dell’amore ineluttabile ancorché tradito e la fedeltà alla sua missione; a lei Walter Benjamin, il filosofo ebreo tra i geni più luminosi del Novecento, aveva lasciato i suoi manoscritti inediti, prima di morire suicida sul confine tra Francia e Spagna, in fuga dai nazisti.
Con questo bagaglio morale, Hannah si lega a Broch. Lui le dà del lei, poi del tu, poi di nuovo del lei; la chiama “mia cara”, o solo con la iniziale del nome. Si lascia rimproverare e la rimprovera per le cose più disparate. Lei gli oppone un ironico e cortese rifiuto: “Hermann, lasci che io sia l’eccezione”. Ogni volta dopo una serata passata con lei, Broch convoca l’amico Pick e brontola scuotendo la testa: “Non si dovrebbe permettere a nessuno di sapere tante cose!”. Hannah è l’unica donna che gli resiste e l’unica tra gli intellettuali contemporanei a provocargli un’autentica “invidia” mista a tenerezza.
Dall’ospedale di Princeton, dove è ricoverato per una frattura all’anca, azzarda: “Le voglio bene”. Hannah ha una mente alacre e rigorosa. Usa la fantasia per immaginare sbocchi per la filosofia dopo l’Olocausto: per la poesia la condanna di Adorno (“scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”) era stata inappellabile, e quando Broch le manda versi scritti di suo pugno, lei il più delle volte graziosamente sorvola. Ma è Broch a correggere i suoi manoscritti, con una severità che la affascina. Di Heidegger, che pure ha avuto un grande influsso sulla sua concezione filosofica, Broch parla malissimo a Hannah: lo chiama “autore di poesie e aforismi” affetto da “immaturità senile”, inventore di un esistenzialismo “scivoloso e molliccio come il sapone”.
Sa che nella vita di lei c’è una ferita, che si riapre nel 1950, quando, in visita in Germania, scende in un albergo di Friburgo e scrive un biglietto con le sole parole: “Sono qui”. Lo fa recapitare a Heidegger, che si presenta in albergo con l’intenzione di lasciare a sua volta un biglietto; ma mentre sta per consegnarlo al fattorino, decide di farsi annunciare.
Broch, che intanto ha sposato Annemarie Meier-Graefe, non le fa domande, dal suo letto d’ospedale, ma si dice “preoccupato” per lei. Si sa malato, lavora incessantemente, e soprattutto pensa di aver fatto un enorme errore a sposarsi (chiama sua moglie “la vedova”). “Sono stanco morto”, scrive a Hannah. Quando due giorni dopo muore, è Arendt ad avvisare la moglie, che si trova a Parigi: “Hermann è morto questa mattina alle 3”. Poi scrive nelle sue note: “Sopravvivere. Come si vive però con i morti? Il sentimento che si schianta è come un pugnale che mi viene girato nel cuore” (è una citazione da una lettera di Kafka). La dedica è a “lui – chi uno sia lo si sa solo quando è morto – disperato nelle reti di una vita massimamente ingarbugliata”.
Nel 1960, in occasione dell’uscita di Vita activa, Arendt lo manderà a Heidegger con una dedica. Tra i suoi appunti verrà trovata questa nota, mai spedita e senza destinatario: “De Vita activa. Come faccio a dedicarlo a te, l’intimo amico, cui sono e non sono rimasta fedele, sempre per amore”.