Corriere della Sera, 12 ottobre 2021
Biografia di Edoardo Albinati raccontata da lui stesso
Sono quasi tre ore che con Edoardo Albinati parlo delle monumentali 1.300 pagine de La scuola cattolica che gli valsero il Premio Strega 2016 e che ora sono un film, sorprendentemente vietato ai minori di anni 18, di come però alla prima al Festival di Venezia si sia un po’ commosso «a vedere sullo schermo quel ragazzetto che si chiama come me, o ad arrivare in motoscafo al Lido», o che parliamo dei 27 anni spesi a insegnare nel carcere di Rebibbia, o di quando fece sobbalzare una platea di intellettuali spiegando che ai suoi quattro figli si è guardato bene dall’insegnare dei valori, o di quando era volontario a Kabul con l’Onu, o dell’ultima volta che ha fatto a botte o delle labbra della fidanzata. Siamo nel suo studio, nel quartiere Trieste di Roma dov’è cresciuto, compagno di scuola di Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira, i tre assassini stupratori del Circeo, che ora sono o morti o in galera e sono nel romanzo e anche nel film. Dovete immaginarlo che ride spesso di sé, come se non stesse parlando di sé. C’entra una sua teoria sull’identità, lui che dice «per me, Edoardo Albinati è solo un nome sul passaporto», ma ve la racconto dopo. Ora, vale la pena star qui, sull’ultima domanda che gli ho fatto e che riguarda due righe di Velo Pietoso, il pamphlet appena uscito per Rizzoli che raccoglie quattro mesi di appunti sulle cose più ridicole, assurde e retoriche che gli capitavano a tiro.
Perché qualcuno le ha dato uno schema per mettere ordine in ciò che le dà ansia?
«Non l’ho mai compilata quella scheda. Infatti, la mia vita resta disordinata. Serviva ad affrontare i problemi uno alla volta... Le faccio vedere una cosa che ho mostrato anche alla neurologa. Così si capisce di cosa parliamo». (Si alza, esce, torna). «Non l’ho trovata. Il disordine, appunto. Era la mia agenda: ogni giorno s’impastano nomi, orari, grafie in vari colori, freccette, cose che non c’entrano l’una con l’altra. La neurologa l’ha guardata e mi ha chiesto: la sua mente è così? E io: sì. E lei: questo è il problema. Oggi per dire è una giornata pazzesca, stamattina ero in carcere e ora...».
Lo interrompe una telefonata. Albinati deve andare, si scusa, va. E come su un palcoscenico da cui è scappato l’attore, restano due librerie che sono uno scompiglio di volumi stropicciati che minacciano di crollare solo a guardarli. Sono quelli su cui si era documentato per La scuola cattolica: «Non conoscevo le teorie sull’identità maschile e mi sono ristudiato daccapo il neofascismo», mi aveva detto. Invece, appeso alla parete, splende un cartellone con ordinatissime file di schede colorate: è la scaletta del romanzo. I due reperti stanno qui da anni, immagine plastica del disordine impossibile e dell’ordine possibile. Non ho fatto in tempo a chiedergli se li tenga lì per rammentarsi che, se abbiamo domato il caos una volta, forse, possiamo riuscirci di nuovo. Però, prima, gli avevo fatto un’altra domanda.
Perché sempre in «Velo Pietoso» scrive che ha fatto un test neurologico per la sindrome disattentiva? Che disturbi di attenzione può avere uno che ha tenuto insieme 1.300 pagine?
«Proprio scrivendo quel libro me ne sono bruciate un bel po’, di sinapsi. Amnesie, difficoltà a orientarmi, lo smarrimento delle chiavi o del telefono erano diventati talmente frequenti che mi sono fatto dare un’occhiata».
Risultato del test?
«L’ho superato, non sono ancora rimbambito. Però, insomma, resto in osservazione».
E ha paura?
«Più che paura, angoscia, ansia di perdere le facoltà intellettuali. Francamente, a 65 anni, sarebbe un po’ presto. Devo almeno finire l’ultimo libro della trilogia Amore e ragione».
La conversazione era partita da altro, dal film di Stefano Mordini. Cosa pensa della censura che parla di «equiparazione tra vittime e carnefici» e accusa la scena in cui Fabrizio Gifuni spiega come nasce il male?
«Lo dico da spettatore del film: quel professore parla del bene e del male che sono in ciascuno di noi. E della presunzione arrogante di sentirsi salvi e liberi dal peccato. Quella sentenza sembra non tener conto dell’incredibile dose di violenza a cui i ragazzi, oggi, hanno libero accesso. Nel film, se ne vede cento volte di meno che in un episodio del Trono di spade».
Tre ragazzi di buona famiglia che seviziano due ragazze, uccidendone una. Dove nasceva quella violenza?
«Erano dei disturbati, ma a dire che erano mostri o pazzi si rischia di assolvere noialtri. Ci furono tante concause: il fascismo di fondo, genitori e insegnanti troppo indulgenti o troppo rigidi, il disprezzo verso le donne e l’onnipotenza derivata dai soldi... Non credo che tutti noi potevamo essere coinvolti, ma ci eravamo vicini, molto. La violenza politica degli anni seguenti non risparmiò quasi nessuno. Lo stesso quartiere Trieste verrà seminato di morti ammazzati e, tra quei morti, potevo esserci io come potevo essere stato io a sparare».
Quanto è stato vicino alle due cose?
«Ho fatto le parole crociate sulla spiaggia con uno che aveva rapito Aldo Moro. Era in clandestinità, non lo sapevo, ovvio. Personalmente, posso dire la data precisa in cui ho detto stop: è il 12 maggio 1977, alla manifestazione in cui fu uccisa Giorgiana Masi, quando vidi che anche i manifestanti avevano le pistole».
Nel romanzo, Albinati ragazzo è nel dilemma dell’essere come gli altri o diverso dagli altri. Che esiti ha dato quel tormento?
«La cosa buona è arrivare a un punto in cui non te ne importa più, di chi sei o non sei. Diventare scrittore mi ha aiutato: i miei personaggi, loro sì, devono avere un’identità, non io. Amo una definizione di John Keats quando dice che il poeta è un camaleonte. Ora, invece, pare ci sia l’obbligo al “sii te stesso”. Ma chi dice che essere se stessi sia per forza positivo?».
Perciò mette solo abiti di altri? E di abiti scrive spesso: l’editore di «Desideri deviati» sembra rigido qualunque cosa indossi. Cos’è questo desiderio deviato di abiti altrui?
«È proprio un desiderio deviato e nasce dal mio imbarazzo ad andare nei negozi. E, forse, dal discorso sull’identità: sentirmi addosso i panni di un altro mi fa sentire più a mio agio. Alla presentazione del mio primo libro, avevo l’abito buono del padre di Sandro Veronesi».
Com’era il bambino Edoardo Albinati?
«Pieno di gioia. Ho avuto genitori uniti, con tutti i limiti del codice borghese dell’epoca, ad esempio, un padre poco presente affettivamente. Pensavo fosse l’unico così, poi quando ho scritto Vita e morte di un ingegnere, decine di persone sono venute a dirmi: mio padre era uguale. Un signore mi ha detto un proverbio siciliano: i padri baciano i figli solo la notte».
Lei quanto bacia i suoi figli?
«Hanno dai 36 ai 26 anni... Quanto mi piacerebbe poterli ancora sbaciucchiare».
Da padre, come ha fatto a non ripetere gli errori dell’educazione borghese?
«Ho ricevuto un’educazione liberale e ho cercato di riprodurla. Ma gli errori capitano: essere troppo o troppo poco presente, dare troppe indicazioni o non darne abbastanza».
In «La scuola cattolica», scrive che i genitori insegnavano tutto sulle buone maniere, ma non hanno mai detto: non uccidere.
«Non era un rimprovero. A un dibattito sui valori che devono guidare l’uomo, ho detto: sono un padre fortunato, ai miei figli ho dovuto dire al massimo “vai a lavarti le mani”. Il resto non ti salverà dal male, se scegli il male».
Lei ha scritto: «L’amore non è mai del tutto assente da ogni singola giornata».
«Questa penso di averla copiata. Ma l’amore sbuca. Se non amore, tenerezza, se non tenerezza, delicatezza, che è il contraltare della brutalità. Ho visto forte questo contrasto a Kabul, da volontario dell’Unhcr. Lì, i momenti di affetto non erano rari e davano sollievo».
Che amore è quello per Francesca d’Aloja, attrice e scrittrice, con cui sta da 15 anni?
«Ho pronto un libro che lo illustrerà. È un amore estremo, violento, pieno di trasporto, nel senso di: sentirsi attratti verso una persona da una forza a cui non si può resistere. S’intitola L a tua bocca è la mia religione. Per me, le parti del corpo amato costituiscono luoghi di preghiera, di meditazione, formano una religione in cui si celebrano riti, ci si comunica».
E questo è il suo solo modo di pregare?
«L’unico».
Come decide di diventare scrittore?
«Non ho avuto una vocazione precoce. Da bambino, mi piaceva leggere, poi, ho fatto traduzioni, manovalanza intellettuale, quindi, i raccontini che scrivevo sono piaciuti e ne ho scritti ancora e, quando ero percepito come scrittore, era troppo tardi per diventare altro».
Perché insegna in carcere?
«Ho fatto domanda e ho avuto la cattedra».
Un passo che conquista i detenuti?
«Filippo Argenti nell’Inferno, così iracondo che si prende a morsi da solo. Fa capire come la rabbia possa portarti a divorare te stesso».
Lei per cosa si arrabbia?
«Per lo svaccamento quotidiano: la gente se ne frega degli altri. Io, se vedo uno in seconda fila che blocca il traffico, vorrei mascherarmi da vendicatore col mantello e sfregiargli l’auto. E quando uno al bar sproloquia contro neri, ebrei, donne e gay, a me prudono le mani».
Le è capitato di arrivarci, alle mani?
«Purtroppo. L’ultima volta, per strada, l’avversario quasi mi rompeva il collo».
Che cosa la rende felice?
«La felicità altrui, ma non per altruismo: mi è più facile provare sentimenti per interposta persona. Quando ho vinto lo Strega, ero sotto psicofarmaci, depresso e svuotato dopo i dieci anni spesi sul libro. L’ambaradan del premio l’ho vissuto quasi con disinteresse. Poi, però, l’entusiasmo del mio editore, di Francesca, dei figli e degli amici mi è rimbalzato addosso e, allora, ho capito che ero felice anche io».