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 2021  ottobre 10 Domenica calendario

Intervista a Enrico Rava

«Che noia ’sta cyclette...», sbuffa, ma con leggerezza, Enrico Rava. «Devo farla tutti i giorni come riabilitazione. Ho avuto un piccolo tumore ai polmoni, sono stato operato. Tutto bene», racconta il grande jazzista a «la Lettura», proprio qualche giorno prima dell’uscita del suo nuovo disco Edizione Speciale (Ecm). «Mi piace pensarlo come la chiusura del periodo Covid e della storiaccia che mi è capitata. Mi sentivo giovane fino a poco fa. Quest’ultima batosta mi ha fatto invecchiare d’improvviso. Mi sento come se avessi 102 anni, non 82». Si ferma. «La cyclette mi ha dato però l’occasione di ascoltare più musica del solito e mi sono reso conto di una cosa…».
Di quale?
«Che ora i dischi della Blue Note, che adoravo a 25 anni, ora mi annoiano».
Parla delle incisioni storiche di Lee Morgan, Donald Byrd...?
«Non solo loro, che erano i più bravi, ma anche altri trombettisti dimenticati».
Chi sono?
«Carmell Jones (1936-1996, ndr), Don Sleet (1938-1986). Bella musica, per carità, ma quando ascolti i veri grandi...».

Allude a Miles Davis, immagino.
«Un assolo di Miles è una pièce, una storia, un qualcosa che va oltre il fraseggio su degli accordi. Con lui si entra in un’altra dimensione. Drammaturgica».
Con gli altri invece?
«Suonano tutti nello stesso modo. Nelle improvvisazioni usano frasi che si sono ascoltate milioni di volte. È come un cibo medio».
Lei ora sta cercando altro invece.
«Forse esagero, perché comunque ci sono cose bellissime tra i vecchi Blue Note. Forse il mio gusto è cambiato».
Lei è anche un grande lettore, le è successa la stessa cosa con certi libri?
«Molto meno. Solo con John Steinbeck e William Faulkner, che adoravo: ora non ne sono più così affascinato».
Cosa sta leggendo invece ora?
«I libri di Isaac Singer».
Le piace come autore?
«Incredibilmente. Lo avevo già letto. In alcuni casi mi lascia però un po’ così...».
Così come?
«A volte è difficile da seguire. Ci sono cose di cui scrive legate all’ebraismo che non conosco: cibi, festività, abitudini».
Perché è tornato a leggerlo?
«Ci sono arrivato nuovamente attraverso i libri bellissimi di Eshkol Nevo. Sono partito con Tre piani e poi ho letto i primi due. Una scrittura straordinaria».
Letture al femminile invece?
«Ho letto Tre di Valérie Perrin. Scorre bene. Così come L’inverno dei leoni e I leoni di Sicilia di Stefania Auci».
Da quanto tempo non suona?
«Due mesi. Ora posso riprendere».
Gli strumenti li tiene nella custodia?
«No, sono sempre fuori. li voglio vedere. La tromba si è ossidata all’aria, il flicorno non soffre perché bagnato in oro».
La tromba richiede molta costanza?
«Di più. Uno di talento come Don Cherry, che quando emerse pensai che sarebbe diventato il nuovo grande della tromba, non si esercitava quasi mai».
Con quale risultato?
«Quando abitavo a New York abbiamo fatto molte jam session insieme. I primi tre minuti suonava divinamente, poi, per mancanza di esercizio, non gli teneva più il labbro e faceva una stecca dopo l’altra».
Come ha vissuto a New York?
«È stato un periodo molto intenso, mi sono ritrovato a suonare con quelli che fino a pochi anni prima reputavo dei marziani da quanto erano bravi».
Un nome?
«Cecil Taylor. Mi sentivo nel centro delle cose. Agli inizi ebbi qualche problema economico ma poi si risolse tutto».

In quale città ha vissuto meglio?
«Buenos Aires, ci andai nel 1966. È stata per me come un vestito su misura».
Come mai?
«Dopo una settimana che ero lì di colpo parlavo argentino (ride, ndr) e la gente mi scambiava per uno di loro».
Deve esserci stata una bellissima atmosfera culturale in quel periodo.
«Due tassisti su tre che beccavi, scrivevano anche poesie... Sì era tutto magico. Sapevo che Jorge Luis Borges stava in un alberghetto che si chiamava Dorà. Passavo sempre di lì per incrociarlo».
Ci è mai riuscito?
«Lui no ma il suo grande amico Adolfo Bioy Casares sì. Il suo Diario della guerra del maiale è un capolavoro in cui i maiali sono i vecchi, che diventano qualcosa da eliminare, per cui si nascondono. Casares, come Ernesto Sabato d’altronde, è troppo poco tradotto in Italia».
Ci parli della musica a Buenos Aires.
«Il tango usciva dalle finestre, dai locali, dai negozi. Ma non solo il tango moderno di Astor Piazzolla e di Eduardo Rovira, anche quello tradizionale di Anibal Troilo, che fu il più grande bandoneonista di tutti i tempi. Lo conobbi, era vecchio e grasso, ma come suonava...».
So che lei ha vissuto anche un golpe.
«Quello di Juan Carlos Onganía del 1966. Una cosa che non ho mai capito è perché un Paese così ricco di risorse naturali e umane sia sempre ridotto male».
È il problema dell’America Latina. Basti pensare anche al Venezuela.
«Il Cile, l’Ecuador, il Brasile, che veniva considerato la Germania d’America».
Lei ha anche vissuto n Brasile?
«Più che vissuto, ho frequentato parecchio musicalmente Rio de Janeiro».
Ora è in Liguria, nella sua Chiavari.
«Qui almeno c’è anche il mare…».
Le piace il mare?
«Ci sono nato. Amo guardarlo, le attività marine invece non mi piacciono».
A quali si riferisce in particolare?
«In barca a vela mi sento in prigione».
Quale posto la ispira per comporre?
«Dal ’78 all’85 avevo una casa a Corniglia, paese di 250 anime in provincia di La Spezia. Lì ho composto l’80% dei brani che eseguo spesso ancora oggi».
Le sue composizioni non suonano mai datate. Quale la rappresenta?
«Theme for Jessica, Cornettology e Infant, che uscirà nel nuovo disco. È un brano che suono spesso e che apre a possibilità di sviluppo sempre nuove».
Che cosa ci dice del nuovo disco?
«Non dovrei dirlo io ma ha un’energia eccezionale. A me piace moltissimo come è venuta Once Upon a Summertime».
I musicisti del suo gruppo?
«Ascoltano, sono intelligenti, conoscono il vocabolario, il linguaggio, ma non se ne fanno condizionare».
Il suo desiderio in questo momento?
«Che quando riprenderò in mano la tromba la musica mi esca di nuovo».