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 2021  ottobre 10 Domenica calendario

Bob Wilson on the Road. Intervista

La forma e l’informe. Il metodo e il caos. Dunque, il puro e l’impuro. Da una parte, Bob Wilson. Dall’altra, Jack Kerouac. Ecco Wilson. Che, nelle sue opere, compie, innanzitutto, una sorta di semplificazione d’impronta minimalista, effettuando un radicale superamento di ogni tentazione letteraria. Abbandonata la funzionalità espressiva o retorica della messa in scena, sperimenta una libertà linguistica ardita, istituendo corrispondenze tra linguaggi diversi. Convoca – in un’unica cornice – arte, teatro, musica, danza. Concatena, in un rapporto necessario, il visivo, il sonoro e il corporale. Per potenziare questa combinatoria, Wilson attribuisce un’assoluta centralità alla componente luministica e a quella sonora. Memore della lezione caravaggesca, ferma e scolpisce la luce. Inoltre, tratta musiche, suoni e rumori come se fossero elementi plastici. Che, poi, iscrive in una trama dotata di un proprio ritmo, capace di determinare nel pubblico un effetto intra-corporeo.
L’approdo di questo discorso: opere totali stranianti. Un’arte dell’illusione, intessuta di vuoti, distanze e contrappunti. Servendosi di segni referenziali in maniera poetica, Wilson – come accade nel suo capolavoro Einstein on the Beach — tocca le vette di un’iperspettacolarità allucinante e onirica, fatta di sproporzioni, di vertigini, di ebbrezze e di stordimenti.
In un territorio diverso ecco Kerouac. Il romanziere scapigliato di un’Odissea attraversata da giovani frenetici, sfrenati, dissoluti, non violenti, assetati di vita, impegnati in scorribande furiose. Il narratore inquieto di un’epica priva di eroi. Cronista, in On the Road, della selvaggia e sregolata ribellione di ragazzi che scelgono di sfidare l’autorità e le regole della società borghese.
All’apparenza, due mondi lontani. Solo all’apparenza, però. È ciò che emergerà dall’omaggio a On the Road cui Wilson ha iniziato a lavorare in queste settimane: «la Lettura» ne anticipa le fasi preparatorie. A qualche giorno fa risale il workshop, tenuto a Roma, nel corso del quale il grande regista statunitense, insieme con il suo staff, ha iniziato a raccogliere immagini e materiali. Ha preso appunti, disegnato, progettato. Fedele al suo metodo, nella prossima estate, Wilson selezionerà questo archivio nella factory di Watermill, New York. Al termine di questo backstage, sceglierà anche alcune reliquie di Kerouac, come parti di un ready made mobile: i suoi quadri di matrice neoespressionista e vari reperti privati (abiti, taccuini, penne e il leggendario rotolo unico di carta per telescrivente su cui fu scritto On the Road).
Prodotta dalla Change Performing Arts, curata da Franco Laera, l’opera-installazione verrà presentata il prossimo anno in una sede espositiva italiana ancora da individuare, per celebrare i cento anni della nascita di Kerouac (12 marzo 1922).

Ricorda il primo incontro con i Beat?
«Metà anni Sessanta. Mi ero appena trasferito da Waco, Texas, a New York, per frequentare il Pratt Institute. Manhattan era in continuo fermento: mostre, danza, concerti sperimentali, reading di poesie. Nella parte meridionale di Manhattan c’era la St. Mark’s Church in-the-Bowery, la chiesa dove si tenevano alcune letture. Lì ho incontrato, di sfuggita, Allen Ginsberg. Che, anni dopo, mi ha contattato. Sono andato a trovarlo alla St. Mark’s Church. Aveva visto il mio The Life and Times of Joseph Stalin, lungo 12 ore. Aveva assistito per intero alla performance, che gli era piaciuta molto. Gli chiesi di collaborare a un mio lavoro. Mi rispose che avrei dovuto chiedere a William Burroughs. Poi, aggiunse: “Forse, dovresti fare On the Road”. Ricordo di avere letto per la prima volta il romanzo dopo quell’invito. Allen ha poi continuato a spingermi a fare qualcosa su On the Road».
In una rara intervista televisiva per la Rai, Fernanda Pivano chiede a Kerouac: «Jack, dimmi, ma perché non sei felice?». E lui, gonfio di alcol, resta in silenzio. È stato un poeta maledetto, un po’ ostile, un po’ indifeso. Che ha inventato un modo diverso di narrare: non scrive intorno a «cose», ma è alla ricerca di «cose» su cui scrivere. Perché un giovane oggi dovrebbe accostarsi a «On the Road»?
«Penso che un giovane d’oggi debba affrontare il romanzo con la mente aperta. Per cogliere la sua potenza bisognerebbe sentire Kerouac mentre lo legge: penso che sia il modo migliore per accostarsi a questo libro. È una specie di musica. Il manifesto di una generazione. Che ha influenzato musicisti come Bob Dylan e Tom Waits, grandi fan di Kerouac».
Che rapporto ha con la letteratura? La sua opera teatrale e artistica sembra sottrarsi a ogni «affabulazione».
«Ah, questo non è vero! Mi sono misurato con testi di Shakespeare, di Cechov, di Burroughs, di Heiner Müller. Certo, mentre la maggior parte dei drammaturghi propone un teatro di parole, i miei spettacoli si vedono e si ascoltano. Ma non per questo si sottraggono a un confronto con il testo scritto».
«On the Road» è un’opera-fiume, scritta da un ventinovenne in tre settimane, con l’aiuto del caffè, su un rotolo unico di carta per telescrivente lungo 36 metri, senza divisione in paragrafi. Come un flusso di coscienza, che potrebbe essere accostato a tanti suoi progetti.
«Il fatto che Kerouac abbia scritto On the Road su un unico lungo pezzo di carta continuo è dovuto alla sua necessità di afferrare un unico pensiero. Rifiutava le interruzioni. Non voleva un libro di tante pagine. Sognava un romanzo di una sola, lunghissima, pagina. Un romanzo composto su una striscia srotolata sul pavimento. Come una strada».
E, tuttavia, il suo universo poetico appare lontano da quello dell’autore di «On the Road». Lei è stato descritto come un maestro del formalismo. Kerouac mette al centro delle sue scritture la dimensione autobiografica...
«A suo modo, Kerouac è stato uno scrittore molto disciplinato. Il mio formalismo? In fondo, è vicino a ciò che facevano i poeti beat. È un modo per superare la macchina: più sei meccanico più diventi autonomo. Il mio formalismo è anche un modo diverso per essere liberi. Si basa sulla forza della ripetizione. Mi piace ripetere continuamente qualcosa, senza nessuna pausa. Solo così posso conquistare la libertà. È la libertà di qualcuno che fa qualcosa per la prima volta. Ma l’interpretazione è lasciata sempre agli altri: al performer o al pubblico».
Qualche anticipazione sulla sua opera ispirata a «On the Road»?
«Sarò rispettoso. Ma bisogna stare attenti a non diventare schiavi di questo romanzo. On the Road è una casa di pensieri. Interpretare questo testo o illustrarlo lo sminuirebbe. Perciò mi prenderò una tremenda libertà nel presentarlo».
Che ruolo avranno le reliquie di Kerouac? Come le userà?
«Non lo so ancora. Ho appena iniziato la ricerca. Non so davvero cosa ne sarà. Per il momento, direi che il mio omaggio sarà come un’autostrada. Sì, come un viaggio in una highway».

Com’è cambiato il suo modo di fare arte negli anni?
«Ho attraversato un’inevitabile evoluzione. Ma resto la stessa persona. Del resto, la vita di un artista è un corpo unico e continuo, fatto di tante opere diverse, realizzate, però, sempre dalla stessa mano. È un corpo che cambia ininterrottamente: ogni volta che nasce una creazione».
Lei può essere considerato tra gli ultimi interpreti della tradizione delle avanguardie. Crede che sia ancora possibile, oggi, un’avanguardia?
«Il genere umano farà sempre lavori d’avanguardia. Avanguardia, per me, non è sinonimo di quel che spesso si dice. Significa riscoprire ciò che si è già fatto sin dalla nascita. Significa anche tornare indietro nella storia e riscoprire ogni volta i classici: di generazione in generazione. Forse, avanguardia è questo: riscoprire. Ogni processo di apprendimento è la scoperta della conoscenza che già abbiamo dentro di noi. Alcuni esempi: la matematica si trova nell’architettura cinese, in quella egizia, in quella romana, ma anche nelle architetture di Mies van der Rohe e nei cubi di acciaio inossidabile di Donald Judd».
I suoi spettacoli, spesso, si offrono come geografie nelle quali confluiscono diversi media (teatro, pittura, scultura, video). Che rapporto esiste tra i suoi lavori e l’utopia wagneriana di opera d’arte totale? Wilson artista totale, come i maestri del Rinascimento?
«Gli artisti del Rinascimento erano ingegneri, scienziati, scultori. Il campo nel quale si muovono gli artisti deve essere aperto, spalancato. Oggi dobbiamo stare attenti a non diventare troppo specializzati e troppo ristretti. Se sei un artista, è importante conoscere bene scienza, matematica, antropologia».
Lo scorso 4 ottobre ha compiuto ottant’anni. Se si volta indietro, che bilancio fa del suo itinerario?
«Non ho mai pensato al mio mestiere come al rito di qualcuno che si sveglia di mattina e deve fare qualcosa. Sono contento di poter continuare a lavorare. Perché penso che il lavoro sia un modo di vivere».
Come immagina il suo futuro?
«Non so proprio come sarà. Sicuramente non ci sarò. Ma le confesso che ora mi piacerebbe prendermi un giorno libero e dormire».