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 2021  ottobre 10 Domenica calendario

Intervista a Joyce Carol Oates

«Questa è un’autobiografia emotiva, ma con personaggi inventati». Joyce Carol Oates descrive La notte, il sonno, la morte e le stelle, pubblicato in Italia dalla Nave di Teseo, e dedicato «alla memoria di Charlie Gross, primo lettore e marito adorato», scomparso nell’aprile 2019. «La casa in cui è ambientato il romanzo è questa, anche se non esattamente. La stanza da letto, dove ha luogo gran parte del romanzo, è la mia». Siamo in veranda, con vista su un piccolo torrente, poco distante dall’università di Princeton dove Oates ha insegnato a lungo. «C’era anche un molo, ma la tempesta l’ha spazzato via».
Passeggiamo in giardino, tra cespugli di fiori chiamati Susan dagli occhi neri, pomodori e basilico dolce, affiancati in modo «un po’ casuale». «Non è un giardino classico ma tipicamente americano». C’è un patio per i gatti – Zanche, «più timido», e Lilith, «più piccola, una trovatella» – recintato. «Non crediamo nel lasciarli girare fuori: uccidono gli uccelli».
È la prima volta che la scrittrice, 83 anni compiuti il 16 giugno, ambienta un romanzo in casa sua. «È la storia di una famiglia, perciò avevo bisogno di una grande casa. È stato un momento difficile per me e lo è ancora, anche se mi sono un po’ più abituata. È una casa che non avrei comprato da sola, l’ho comprata con mio marito che era un fotografo oltre che uno scienziato. Lui è come Hugo ed è su di lui che è basato quel personaggio».
Il romanzo tocca tutte le corde della perdita e del lutto, ricordando in certi momenti Storia di una vedova, il memoir in cui Oates raccontò nel 2008 la morte inaspettata di Raymond Smith, il suo primo marito. Ma il protagonista qui è un personaggio fittizio, un ex sindaco bianco e borghese soprannominato Whitey (i capelli gli stanno diventando bianchi) inaspettatamente ucciso in un caso di brutalità della polizia perché cercava di difendere un uomo di colore. «La trama muove da uno all’altro dei personaggi: i cinque figli e la moglie Jessalyn. Lei arriva a un punto della sua vita in cui ha tendenze fortemente suicide, è molto depressa. Poi incontra per caso Hugo al cimitero. Lei è là perché è vedova, lui scatta la sua foto. Dalla morte e dal lutto nasce la possibilità di una nuova relazione».
All’ingresso, le foto che ritraggono Charlie Gross riempiono una bacheca. Nelle altre stanze, alle pareti, ci sono foto da lui scattate in giro per il mondo: in Cina e Oman, Antartide e Italia («Amava la costa di Amalfi, le sue città preferite erano Venezia e Roma»). La scrittrice ci dona il suo novo romanzo, fresco di stampa in America: Breathe («Respira»). È la storia di un’insegnante, come lei, che perde il marito neuroscienziato. «In memoria di Charlie Gross», dice la dedica. Nella pagina successiva, la frase di un anonimo: «Quant’è difficile entrare in una casa vuota».
In che modo romanzo e autobiografia si fondono in «La notte, il sonno, la morte e le stelle»?
«Volevo scrivere su una famiglia in crisi: la moglie ma anche i figli. Quando muore qualcuno che è molto amato ma anche molto potente, come può essere una figura patriarcale in una famiglia o nella società, si genera un effetto a catena che cambia le vite di tutti. Volevo anche scrivere sullo stato di fragilità della giustizia sociale negli Stati Uniti. La morte di Whitey è causata da quella che chiamiamo brutalità della polizia. Ho scritto il mio romanzo prima del caso di George Floyd, poi l’attualità ha raggiunto la finzione. Volevo raccontare un atto di brutalità della polizia non contro una persona nera o di colore ma contro un uomo bianco. Tutti si aspettano che i bianchi saranno risparmiati ma non è vero, nessuno è al sicuro. Se c’è ingiustizia sociale nel Paese, prima o poi ci saranno conseguenze per tutti».
Tra i personaggi spicca quello della vedova.
«Ma la sfida di questo libro è stata di raccontare una famiglia, anziché solo moglie e marito. Tra i figli, mi identifico molto con Virgil: è uno scultore, un outsider. Ma mi sento vicina a tutti loro, in un certo senso, com’è tipico degli scrittori. Sono probabilmente meno di tutti come Whitey. È un maschilista all’antica, anche se ama davvero sua moglie. Non capisce che non è bene che non le lasci mai guidare la macchina. Lui guida, lei gli siede accanto. Uomini come lui non hanno mai capito. Aprono la porta ma non lasciano che la moglie lavori... le danno una pelliccia di visone. È l’ideologia dell’uomo che doveva essere protettivo e forte, e la moglie debole. Ma in questi vecchi matrimoni spesso la moglie era la più forte, era lei che teneva insieme la famiglia».

Questa famiglia si può paragonare alla sua?
«Mia madre non aveva un lavoro fuori casa, era casalinga, veniva da un mondo dove le donne non avevano carriere e ha dovuto lasciare la scuola a 13 anni. Ma mio padre non era come Whitey, lui assomiglia ad altre persone che ho conosciuto. E la mia vita è stata diversa, ho sempre avuto un lavoro. Il mio piano iniziale era di fare l’insegnante e non pensavo che mi sarei sposata. Il fatto che mi sia sposata non ha significato che mio marito pagasse per me, entrambi i miei mariti erano professori, avevamo lo stesso rango all’università».
Sua nonna è stata una figura importante.
«Sì, la madre di mio padre amava i libri. Dopo che morì scoprimmo che era ebrea ma non lo sapeva nessuno, penso che temesse l’antisemitismo. La sua famiglia arrivò in una parte dello Stato di New York dove non c’erano ebrei, non c’erano sinagoghe, finsero di essere... nulla... non volevano parlare del passato. Non ho conosciuto la madre di mia nonna né suo padre, che si uccise. Mia nonna era una persona misteriosa ma sapeva amare molto: mi regalò tanti libri e una macchina da scrivere, era amorevole anche con mia madre, ma non si confidava con nessuno, che io sappia».
Si dice che per sconfiggere il razzismo chi gode di un privilegio per il fatto di essere bianco dovrebbe attivamente aiutare chi è nero. È quello che Whitey cerca di fare ma non va a finire bene, nel suo caso.
«Non volevo che fosse un superuomo ma una persona normale con difetti. Si crede così importante: è stato sindaco, pensa di poter dire a quei poliziotti di smetterla ed è assai sorpreso quando non gli prestano attenzione... Whitey è una figura di transizione: non è nel nuovo mondo ma neanche nel passato. Hugo è molto più contemporaneo, lui marcerebbe per Black Lives Matter, parteciperebbe a un boicottaggio, Whitey no».
Il movimento Black Lives Matter è riuscito a ottenere la solidarietà dei bianchi?
«Fino al Covid andava bene, poi l’attenzione si è spostata. Nel marzo 2020 qui in New Jersey ci hanno detto di stare a casa, dicevano che se fossimo usciti avremmo rischiato di morire. Tutti erano piuttosto spaventati, non sapevano se sarebbero rimasti in vita la settimana dopo. Ora Black Lives Matter è come sospeso. Anche il movimento delle donne è sotto attacco. Parliamo di privilegio bianco ma tante donne in Texas o Florida, seppure bianche, sono tutt’altro che privilegiate: i loro diritti riproduttivi sono minacciati».
Oggi lei ascolta diversamente i suoi personaggi?
«Se lasci che parlino sulla pagina in un monologo o un soliloquio drammatico, come fa Shakespeare, dicono molto. Se cerchi di sintetizzarlo in prosa, è come metterci un tappo. In questo romanzo i personaggi dei figli sono tutti diversi. E Hugo è diverso: non è esattamente una persona bianca, parla con una cadenza differente. Io provo grande felicità nell’ascoltare le persone parlare. Ho scritto testi teatrali dal 1990 in poi e penso che questo abbia cambiato i miei romanzi. Prima usavo la prosa per riassumere, come in una favola: “C’erano una volta un re e una principessa...”. Ma così racconti una storia come se fosse già finita. Quando invece le persone parlano sei qui, nel presente».