La Lettura, 10 ottobre 2021
Intervista al regista teatrale Liv Ferracchiati
Liv Ferracchiati, 35 anni, autore e regista teatrale pluripremiato (tra le tante opere Trilogia dell’identità), pubblica il suo primo romanzo Sarà solo la fine del mondo (Marsilio). Il protagonista è transgender come l’autore, eppure questa non è un’autobiografia – se non per il riconoscersi nel genere opposto a quello di elezione che ha riguardato anche l’autore. Questa non è un’autobiografia dunque, è un romanzo, la storia di una persona dalla nascita alla morte, di più: dal concepimento alla morte. Il protagonista difatti parla, discetta, protesta, s’indigna ancora prima di nascere. Scelta narrativa e al tempo stesso dichiarazione di poetica: siamo quello che sentiamo di essere. E lo siamo indipendentemente dal corpo, al punto che l’io narrante esiste già senza. E potrebbe esistere serenamente con, se non fosse che il mondo intorno lo convince di essere nato nel corpo sbagliato. Questa perciò è la storia di formazione di un’identità che si sente maschio, nasce femmina, e che, tentativo dopo tentativo, si riappropria del maschio.
Elementi in comune tra l’autore e il protagonista?
«L’anagrafica, entrambi dell’85, e il sesso di nascita: femminile».
Guglielmo Leon (come si battezza da adulto) parla da subito al maschile.
«Sono stato indeciso se farlo parlare per quattro capitoli al femminile, quindi la sorpresa. Poi ho capito che non contava tanto la sorpresa del lettore, quanto la sicurezza di lui di sentirsi maschio».
Da bambina fa la pipì in piedi.
«Per scrivere la trilogia ho intervistato diverse persone transgender, e fare la pipì in piedi era comune a molti di loro nati femmine. Va detto che l’infanzia è per tutti, transgender e non, il tempo delle prove dell’io».
Lo sono i giochi di Guglielmo Leon con il cugino?
«Per lui è come esplorare il suo corpo, quel corpo che sente di avere e non ha».
L’organo sessuale del protagonista: reale o percepito?
«Il clitoride, la clitoride è troppo fru fru per me, è un piccolo pene, e se ce l’hai non piccolissimo si fa sentire, soprattutto se il tuo cervello, il tuo sistema periferico è convinto di avere a che fare con un pene».
L’arrivo delle mestruazioni per una femmina che si sente maschio?
«La risposta è nel romanzo. Riguardo a me, m’imbarazza parlare di cose intime».
Primo bacio: Guglielmo Leon lo dà a un maschio.
«Un tentativo di nascondere la propria natura e avere il plauso degli altri».
Quanti baci a vuoto per arrivare all’identità?
«A volte agendo ciò che non ci appartiene scopriamo noi stessi in maniera controintuitiva».
Scoprire sé stessi.
«La costruzione identitaria è un gioco di composizione e scomposizione continua. Ogni tassello, se preso troppo sul serio, può diventare una gabbia. Le categorie vanno strette alla natura umana».
Faticoso far saltare le categorie?
«Tutti aderiamo al modello culturale del genere di nascita. Arriva però un momento in cui ci accorgiamo che quello che facciamo, che sia il taglio dei capelli o la scelta di un maglione, è l’imitazione di un canone. Allora comincia l’abbattimento del cliché».
Più difficile in provincia, nel suo caso Todi?
«La provincia è un luogo meraviglioso, uno spazio di solitudine e insieme di pericolo: il tempo è lento, non c’è molto da fare, e ci si concentra su ciò che passa, ciò che esce dal paradigma che diventa oggetto di commento».
Cosa comporta crescere fuori dai canoni in provincia?
«Io non ho mai avuto problemi, sono stato capoclasse. Durante la maturità ho girato interviste satiriche a studenti e professori, mi lasciavano molto libero, addirittura di saltare le ore di lezione per riprendere».
Liv Ferracchiati: il momento in cui nasce l’artista?
«A nove anni scrivo un film da girare con la videocamera di mio padre».
Lo gira?
«Convoco gli attori, alcuni miei compagni di classe. Il film non termina mai perché i genitori smettono di portare i figli sul set».
Qual era il set?
«Camera mia».
Storia del film?
«Una bambina che sogna di fare un viaggio con due amiche. Volevano scappare, essere grandi».
Finale?
«I genitori le portano a fare il viaggio».
Suo padre e sua madre nella realtà.
«Con la videocamera mio padre ha ripreso tutti i miei giorni di vita, tipo Grande Fratello, dagli zero ai quindici anni. E prima della videocamera, prima della mia nascita, aveva un registratore su cui lasciava frasi: oggi l’ostetrica ha detto, oggi la bambina ha fatto».
Da qui l’idea di raccontare un personaggio dal concepimento?
«Ora che mi ci fa pensare».
Si è rivista?
«Spesso».
Cosa ha visto?
«Il grande amore di mio padre».
Una sorpresa?
«Lo sapevo. Adesso per esempio come foto profilo di Facebook lui ha messo la copertina del mio romanzo».
Il rapporto con i suoi?
«Nonostante io abbia dato loro innumerevoli notizie sconcertanti, sono rimasti sempre dalla mia parte».
Torniamo ai video: che significa avere la possibilità di vedersi crescere?
«Vuole sapere se c’erano i segni del maschio, della bambina che si sente maschio? Io vedevo e continuo a vedere solo un primattore».
Nel senso?
«Ore e ore di me che faccio dialogare gli oggetti di camera mia: il cavallo a dondolo con la bambola. Oppure di me che racconto storie».
Quali storie?
«Mischiavo elementi di realtà con elementi di finzione. Dicevo di avere uno zio incredibile, zio Fausto che aveva costruito un deltaplano su cui tutti insieme avevamo volato, persino io che soffro di vertigini».
Elemento di realtà?
«Esisteva davvero uno zio Fausto, però abitava a Torino, ed era una persona normale».
Raccontava queste storie ai suoi genitori?
«A loro, ai compagni di classe, alle maestre».
Le credevano?
«Tranne la volta dello sbarco extraterrestre. Fino al momento in cui vedo la navicella in cielo, va tutto bene. Quando poi dico che la navicella atterra sul mio terrazzo e io parlo con gli alieni, perdo credibilità».
L’alieno come l’eschimese di «Un eschimese in Amazzonia», terzo capitolo della sua trilogia teatrale?
«Il titolo viene dalla metafora dell’attivista Porpora Marcasciano: le persone transgender potrebbero avere una vita più serena se la società fosse preparata ad accoglierle, invece si trovano a essere degli eschimesi in Amazzonia, con un vestiario non adatto, impreparati al clima, come impreparati lo sono gli indigeni al loro cospetto».
L’eschimese dello spettacolo?
«Sono io».
Per scrivere è meglio vivere poco?
«In un mio spettacolo, Commedia con schianto. Struttura di un fallimento tragico, il protagonista, lo scrittore che lamenta un blocco di creatività, dice: “Oddio, ho iniziato a vivere”».
Quanto ha vissuto Liv Ferracchiati?
«Sono molto morigerato».
A differenza di Guglielmo Leon.
«Lui è più scellerato».
Che osa invidia al protagonista del suo romanzo?
«Quando fa il bagno al mare togliendosi il pezzo di sopra del costume. Quella capacità di liberazione».
Liv Ferracchiati non ha mai tolto il costume?
«Al mare vado vestito».
Altro da invidiare a Guglielmo Leon?
«La volta che prende a pugni Facciadimerda. Cosa che spesso avrei voluto fare io, non esattamente prendere a pugni essendo una persona pacifica, ma riuscire a esprimere la rabbia».
Per esempio?
«Con la mia compagnia dovevo mettere in scena Peter Pan guarda sotto le gonne in un teatro di Milano, un matinée per le scuole. Senonché i genitori non danno il consenso per mandare i ragazzi, spettacolo annullato».
Motivo?
«C’era una manifestazione per la famiglia, credo, e avevano stampato dei volantini con il mio spettacolo e quello Giuliano Scarpinato (la storia di un bambino gender fluid), con sotto la scritta: “Ecco cosa fanno vedere ai vostri figli”».
Sensazione di rifiuto?
«E d’importanza. Ho pensato: se questi si sono presi tanto disturbo».
La parola transgender.
«La uso per comodità ma mi piacerebbe un mondo senza etichette. Poi ho un problema nel passaggio tra la esse e la g, specie se sono emozionato, magari nelle interviste: mi ripeto in testa di dirlo bene, e puntualmente mi esce tragender».
Passaggio al comico.
«Sono contro la glorificazione del diverso».
Nel romanzo lei segue il protagonista fino alla vecchiaia. Esperienza di vecchiaia?
«La scrittura per me è un atto sensoriale come la recitazione. In questo mi sono stati utili gli esercizi di visualizzazione del corso di teatro. “Immagina di aprire un rubinetto”, “immagina di fare il bagno al mare”, e tu non hai niente, neppure un oggetto, solo l’immaginazione».
Come è stato immaginarsi anziano?
«Per assumere uno sguardo distaccato ho immaginato di accumulare tanta vita, tantissima, fino al punto che tutto ciò che avveniva sentivo di averlo già visto accadere».
E?
«Guglielmo Leon decide quando e come morire: si butta dalla barca».
Come vorrebbe morire Liv?
«Non vorrei morire».
Se proprio.
«Dovessi arrivare a novantatré anni e mi doveste vedere su un piano rialzato – terrazzo, ponte – ecco: attenzione sotto».