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 2021  ottobre 10 Domenica calendario

Ritratto di Julie Taymor

Ho conosciuto Julie Taymor in occasione della prima del Re Leone a Broadway. Avevo amato il film della Disney, ma non appena iniziò lo spettacolo rimasi assolutamente folgorato, rendendomi conto che mi trovavo di fronte a qualcosa di ben altro livello: un capolavoro pieno di straordinarie invenzioni visive, che combina l’arte pop con quella etnica, partendo dal piacere di costruire un grande spettacolo. Dal debutto nel 1997, The Lion King, questo il titolo originale, si è moltiplicato in ben 24 produzioni, dirette dalla stessa Taymor, che replicano in tutti i continenti l’allestimento newyorkese. A ventiquattro anni di distanza gli spettacoli registrano regolarmente il tutto esaurito, e a oggi è stato visto da più di cento milioni di spettatori: l’incasso complessivo di oltre otto miliardi di dollari lo rende lo spettacolo di maggiore successo di tutti i tempi di ogni altra espressione artistica, compreso il cinema. Per The Lion King Julie vinse un Tony sia come regista che come costumista: realizzò gli oltre cento costumi in prima persona, forte di un’esperienza costruita su una lunghissima gavetta.
Questa artista sorridente e autorevole è nata a Newton, nel Massachusetts, 68 anni fa, da Melvin, ginecologo, ed Elizabeth, docente e attivista democratica. Già a dieci anni entrò a far parte del Boston Children’s Theatre, recitando in molti allestimenti. Vista la passione irresistibile per il mondo dello spettacolo, e in particolare per le proposte culturali provenienti da ogni parte del mondo, i genitori la mandarono a fare un’esperienza a Sri Lanka e in India con il progetto Experiment in International Living, poi, dopo aver finito il liceo a soli sedici anni, andò a vivere a Parigi, dove frequentò la cinémateque e si innamorò del cinema di Fellini e Kurosawa, due punti di riferimento imprescindibile per tutta la sua carriera. Dopo essersi laureata in folkore e mitologia a Oberlin, cominciò ad appassionarsi alle marionette, specie quelle indonesiane della tradizione Topeng e Wayang. «È necessario comprendere le possibilità che offrono: per troppo tempo abbiamo pensato che le marionette fossero qualcosa per i bambini. Io credo che consentano un’enorme libertà per gli artisti: si tratta di mezzi completamente controllabili e l’artista può creare un panorama molto più largo. In tal senso l’umano diviene più umano, e inoltre hanno la caratteristica di trasformarsi... Sono all’origine del teatro: anche l’ombra nella caverna di Platone era una marionetta». Quando mi ha parlato di questa sua passione mi ha spiegato: «Capisco il potere di trasformazione che ha l’arte: ritengo che la trasformazione sia diventata la parola chiave di tutta la mia esistenza».
Tornò quindi nel Sud Est asiatico dove fondò una compagnia di danza, e conobbe colui che diventerà suo marito nonché collaboratore in gran parte delle sue opere: il musicista Elliot Goldenthal. È insieme a lui che cominciò ad appassionarsi a Shakespeare, dirigendo allestimenti passati alla storia come La Tempesta, Sogno di una notte di mezza estate, La bisbetica domata, e Tito Andronico, che poi diventò il suo primo film. Il trionfo ottenuto con The Lion King le consentì di debuttare anche nel cinema, nonostante continui tuttora a pensare che «in termini di poesia astratta, il teatro è superiore». Dopo Fool’s Fire, un adattamento televisivo di Saltafosso di Edgar Allan Poe, e il visionario Tito Andronico, girato in gran parte in Italia e arricchito da magnifiche interpretazioni di Anthony Hopkins e Jessica Lange, accettò di realizzare Frida, un progetto che le portò Salma Hayek. Il film, che ottenne sei candidature agli Oscar, venne prodotto da Harvey Weinstein: non ho mai avuto modo di chiederle come sia stato il loro rapporto, e ricordo solo che mi disse che una delle prime indicazioni che le diede, a proposito dell’immagine di Frida Kahlo, fu «niente baffi». Nella vicenda dell’artista messicana, mi spiegò, la cosa che le interessava maggiormente era il susseguirsi di tragedie, dal figlio perso mentre era incinta, alle continue infedeltà del marito Diego Rivera: «Attraverso le tragedia raggiungiamo l’intimità dell’uomo».
Ma il suo capolavoro cinematografico è il successivo Across the Universe, un musical costruito da 33 canzoni dei Beatles: ho ancora negli occhi il trionfo che ebbe quando lo presentammo a Roma, e ricordo che mi disse «le limitazioni ti costringono a trovare l’essenza di quello che vuoi dire, che è una delle cose più importanti che deve sapere un artista». È un periodo di grazia: la sua regia teatrale del Flauto Magico di Mozart, riproposto regolarmente al Lincoln Center con la conduzione musicale di Zubin Mehta fu un’altra gemma. Gli anni successivi sono caratterizzati professionalmente da alcuni brillanti adattamenti shakespeariani e recentemente da The Glorias, una biografia di Gloria Steinem, icona del femminismo americano. Lungo questa serie di successi è proprio il teatro a procurarle una delusione: il suo Spiderman, dal budget miliardario e folgorante sul piano visivo, non decolla al box office e le repliche vengono sospese dopo pochi mesi. «Io sono convinta - mi disse - che se non ti metti alla prova e rischi di fallire, non fai nulla di interessante». L’ultima volta che ci siamo incontrati mi ha detto che era alla ricerca di nuovi progetti in ogni parte del mondo, sia per il teatro che per il cinema, spiegandomi che «possiamo essere demoni o angeli: incredibilmente creativi o distruttivi: sta a noi fare una scelta, e creare qualcosa, che può essere grottesco e orribile o mostruosamente bello, al punto da ispirare la gente».