Specchio, 10 ottobre 2021
Intervista ad Anna e Peter Gabriel
ella famiglia Gabriel la creatività scorre liberamente, in molte direzioni. Il padre, Peter, forse la rockstar più amata dagli italiani, da oltre 50 anni è un curioso, geniale exploratore di mondi immaginifici, prima col prog dei Genesis, e poi fra tecnologico e il tribale con sette album solisti, due orchestrali, colonne sonore e una serie di mirabolanti videoclip. Ma è anche un talento a tutto tondo, entrato in molti mondi artistici, oltre ad impegnarsi in una serie di cause nobili, da Amnesty International a The Elders, un’associazione per promuovere «risoluzioni pacifiche a conflitti globali».
Le due figlie avute dalla prima moglie, Jill, sono sempre state al suo fianco. Melanie, corista in molti suoi tour. Anna, che ha girato videoclip e due concerti/tour del padre, e ha appena pubblicato il primo fotolibro, EYE-D (Rizzoli, Lizard). Si legge come ID, identità, ed è uno sguardo, intimo e rivelatore, su 51 occhi. Sono occhi famosi e occhi sconosciuti ai più, e questi occhi, questi sguardi, sono a volte ammiccanti, a volte misteriosi, a volte presentissimi e altre sfuggenti. Nella chiacchierata che facciamo, lei a NYC, lui nel Wiltshire in Inghilterra, cominciamo proprio dai loro.
Partiamo dal gioco preferito di Peter, un gioco da e per i bambini, quello di nascondersi gli occhi con le mani e poi levarle all’improvviso: cucù!
PG «Ci sono degli studi che quando hai un contatto visivo con i bambini e di colpo nascondi gli occhi possono anche piangere, turbarsi emotivamente, e la stessa cosa succede quando i genitori guardano i loro cellulari e perdono il contatto visivo. È interessante, perché al giorno d’oggi tendiamo a perdere quel contatto visivo fra di noi. Mi piaceva giocare a cucù, e ancora lo faccio occasionalmente, ma ora non tanti vogliono giocare con me».
Peter, cosa vedevi negli occhi di Anna da piccola?
PG «Determinazione. Perché lei ha avuto una nascita terribile, sfortunatamente, è stata in un incubatore a lungo. Siamo grati all’incredibile giovane dottore che lavorava giorno e notte, dormendo un pochino qui e là, ma assolutamente determinato a mantenere Anna in vita. E non perché io fossi famoso, era proprio una persona così. Per cui quando guardavamo nell’incubatore vedevamo questa neonata che lottava, determinata e aggrappata alla vita. È stata una delle esperienze più difficili della mia vita. La determinazione è quello che cercavo e quello che vedevo».
Qualsiasi fan dei Genesis conoscequello che è successo nel ’74, durante la creazione di "The Lamb". Il dramma di Peter e la poca empatia del resto del gruppo nei suoi confronti. Si è detto sia stata una delle cause della separazione dal gruppo. Negli occhi di papà cosa vedi tu, Anna?
AG «Credo che la prima relazione che hai coi tuoi genitori sia come ti guardano, le emozioni che leggi. Quando papà tornava a casa potevo vedere se era allegro o triste, arrabbiato o preoccupato. Penso che abbia occhi espressivi, che non riescono a nascondere le emozioni.
PG «E penso sia importante esprimere le proprie emozioni, gli inglesi le reprimono».
Pensi che non le esprimiamo più abbastanza?
PG «Sicuramente agli italiani viene più facile».
Però, Anna, hai scritto che quando hai scattato le foto a papà il suo occhio era metà quello che conoscevi e metà quello della persona pubblica.
AG «Be’, quando metti la macchina in faccia a qualcuno stai invadendo il suo spazio, e la prima risposta è di difendersi. È difficile anche per tuo padre rilassarsi per lasciare che gli occhi esprimano un’emozione».
Anna ha girato in super-8 qualche anno fa le immagini toccanti delle tre generazioni della famiglia Gabriel - il padre novantenne Ralph, Peter e il terzo figlio Isaac- per il clip "Father and Son". È una cosa diversa è quando si gira un video?
AG «Certo, la camera è lontana, è come essere invisibili, è più facile riprendere la dinamica, la interazione».
PG «È stato filmato, qui, sulla collina e il ruscello alle mie spalle. Spesso vivi questi momenti e non ti rendi conto di quanto siano importanti finché non sono passati. È nato dalla sensazione di non sentirmi abbastanza vicino a mio padre, e ho voluto passare una settimana con lui. Abbiamo fatto yoga insieme, ci siamo abbracciati, cosa che non facevamo da tempo. Papà non era a suo agio al centro dell’attenzione, è stata una gran cosa che abbia accettato. Molte persone mi hanno detto che li ha aiutati ad avvicinarsi ai loro genitori prima che morissero e dirgli cosa provavano finché erano lì. Che si riconnette a quella cosa che dicevamo sul liberare le emozioni».
Guardiamo qualche foto. A proposito di identità, dici di Willem Dafoe che da piccola eri confusa dal fatto che fosse o meno Gesù Cristo, visto che lo ha interpretato, con la musica scritta per Scorsese da papà…
AG «Vedi gli attori recitare una parte, e non li vedi mai nella loro vita reale. Volevo cercare di andare più in profondità e attraverso l’occhio catturare come erano davvero».
Nella foto di David Byrne, che gioca a tirarsi le palpebre, hai scritto di come non abbia paura a essere diverso. Che idea avete voi del fluire della "creatività senza fine"? Di David Byrne hai detto che ha condotto lui la session, vi piace che altri prendano l’iniziativa?
AG «Personalmente mi piace avere un piano, ma sono pronta a gettarlo via se il caso o la persona creano circostanze diverse. Con lui è andata così, ma altri vogliono essere guidati».
PG «Io ho avuto la fortuna di lavorare con Scorsese, il meglio, e posso dirti che più la persona è sicura di sé, più è aperta alle idee e alle persone intorno. Come musicista? Sono abbastanza intelligente da prendere idee e scegliere le persone migliori che posso trovare».
Hai scritto che la maggior parte delle persone volevano scattassi l’occhio sinistro, mentre Laurie Anderson non ha avuto problemi a proporre il destro. C’è un motivo secondo te? Gli artisti considerano più il loro lato sinistro, quello femminile, yin, di quello destro,il maschile, lo yang?
AG «Forse, o forse lo consideravano solo il loro lato migliore…»
PG «Ti ricordi quelle foto anni 80 in cui si divideva il volto in due e le due parti esprimevano due personalità distinte? Ricordo una foto di Francis Bacon, il pittore, ed erano due parti totalmente differenti. Forse la mente al lavoro davvero crea fisionomie diverse».
Com’è che non hai scattato i due occhi insieme?
AG «Perché mi piacciono le foto quadrate…»
PG «E poi, EYES-D non suonava granché bene».
Trovo la foto di Youssou n’Dour la più calda e comunicativa…
AG «Si legge il suo sorriso caldo in quello sguardo, anche se non vedi la bocca. Quando saliva sul palco con la sua band era come il sole, è una persona molto calda».
La tristezza negli occhi di Shan McGowan dei Pogues…
AG «È una persona che ne ha viste tante. Era Natale ed era malato, su una sedia a casa, e hai il senso di tutto questo anche se non vedi il contesto».
C’è una foto di Nile Rogers, ex-Chic, uno così funky che sembra piangere.
AG «È stata l’ultima, con luce artificiale, e sembra pianga, sì. Non era così, ma era comunque molto intima, diversa dalla sua reputazione».
La fotografia di Joseph Arthur, che si è dipinto intorno all’occhio («se lo lasci fare ti dipingerà tutta casa», commenta Anna) ci riporta alle maschere, come quella di "Shock the Monkey".
PG «È interessante che le maschere possano nascondere, ma anche esprimere la tua anima. Sono stato a un seminario in cui bambini si mettevano maschere di tutto il mondo, e nel farlo prendevano lo spirito di quello che pensavano la maschera rappresentasse. Come un attore che cerca la parte che può aiutarlo in quel momento, la maschera può estrarre parti della tua personalità. In Sardegna c’è un bellissimo museo con delle maschere nere: credo siano potenti, e non è qualcosa di positivo o negativo, sono solo strumenti intuitivi usati per molti secoli. Sì, abbiamo un legame speciale con la Sardegna, un paradiso dove troviamo gente amichevole, rilassata».
Ma non hai più indossato una maschera sul palco da tanto tempo.
PG «Non ne ho bisogno. L’età mi ha dato una maschera, quella da anziano».
Chiudete gli occhi, chi vedete?
PG «Laurie Anderson».
AG «A livello fotografico, Nadia delle Pussycat Dolls. E poi, mio padre».
Peter, dato che sei in studio al momento, è possibile sapere se e quando uscirà un disco. E non dire come al solito «a dicembre» senza specificare l’anno…
PG «Abbiamo fatto una session di 10 giorni con una band, 17 canzoni sulle quali stiamo lavorando, quindi sta succedendo qualcosa. È più vicino di quanto sia mai stato».
Perché l’ultimo è due figli e un paio di vite fa, no? Capisco che quando uno ha fatto così tante cose, poi, ce ne siano anche altre da fare nella vita, ma non ti manca quella creatività?
PG «Non mi sono mai fermato, ho sempre buttato giù idee. La parte del generare idee è quella che mi piace di più, ma finirle è dura, e venderle, la promozione, ancora di più. Sono stato felice di perseguire anche progetti in altri campi, ma amo fare musica, mi manca non farla e questi ultimi giorni, con musicisti straordinari».
Posso quindi riferire che ci si può aspettare qualcosa?
PG «Puoi dire che la targhetta "prossimo dicembre" verrà riempita presto».