Specchio, 10 ottobre 2021
La seconda vita del bunker di Mussolini
Quando finalmente appare dietro la curva il profilo maestoso della montagna non si può non pensare alla leggenda metropolitana secondo cui sarebbe il profilo di un uomo sdraiato, un volto dal naso affilato, la mascella volitiva. «È il volto del duce», ama ripetere qualche nostalgico del posto. Affacciato sulla via Flaminia a 40 chilometri da Roma, il monte Soratte, quasi 700 metri d’altezza, incombe sul piccolo paese di Sant’Oreste, con la sua storia ricca di segreti, leggende e con il suo super bunker pieno di fantasmi.
Per 70 anni, il covo che Mussolini volle scavare in questa roccia calcarea e che fu recuperato dopo la guerra come rifugio antiatomico per la neonata democrazia italiana, è stato nascosto agli occhi del mondo. Ma ormai il posto dei misteri, con immense gallerie e cunicoli, sale di controllo e relitti bellici, vive un via vai di turisti senza precedenti. Percorsi della memoria storica, brividi nel riscoprire luoghi dove i potenti pensavano di ripararsi da un’apocalisse nucleare o semplice, ma originale campagna di promozione?
«Da quando ha aperto questo posto, nel fine settimana trattorie e ristoranti sono pieni», dice soddisfatta Anna, 55 anni, mentre prepara caffè e cappuccini nel suo piccolo bar incastonato nel cuore del vecchio paese. Alcuni ristoratori per intercettare questo nuovo flusso di avventori si sono ingegnati con piatti a tema nel menu, come la bistecca Tomahawk, a richiamare il bisonte cacciato da pellerossa e cowboy, ma anche i famosi missili made in Usa. In ogni caso, sapore di America.
Appena fuori dall’abitato parte la strada sterrata che porta ai piedi della montagna, meno di un chilometro e si arriva in uno spiazzo sotto il sole a picco, affollato di carri armati, missili e cannoni, perlopiù cimeli della seconda guerra mondiale.
Il bunker con i suoi 4 chilometri di gallerie e cavità fu costruito nel ’37 per mettere in salvo l’élite fascista nel caso di «una situazione di devastazione generalizzata». Oggi è nascosto dietro enormi porte di ferro arrugginito insidiate dalla vegetazione, su cui a sbalzo troneggia la stella a quattro punte della Nato, a ricordare che questo luogo ha avuto più vite.
La sua robustezza lo fece diventare l’Oberkommando nazista per il sud Europa del generale Kesserling dopo l’8 settembre ‘43. Quindi, il segretissimo rifugio antiatomico durante tutta la Guerra Fredda, dove in caso di conflitto con il Patto di Varsavia, il governo centrale di Roma avrebbe dovuto essere trasferito per seguire a quasi 300mt di profondità nel monte Soratte, le operazioni belliche.
«Il nostro percorso della memoria è una macchina del tempo», ama ripetere l’architetto Gregory Paolucci, fondatore e presidente dell’associazione di volontari Bunker Soratte che gestisce questo museo diffuso unico nel suo genere, che richiama fino a 20mila visitatori l’anno. «Grazie a fondi europei - prosegue - stiamo recuperando altre parti del bunker, come il cinema-teatro dei tedeschi, lo spaccio e le camerate del Comando Supremo. E metteremo un trenino elettrico sui binari originali che attraversano parte delle gallerie».
In attesa davanti all’ingresso c’è una lunga fila di appassionati e un gruppo di ragazzi di liceo, arrivati per visitare questo labirinto di gallerie e stanze oscure. Varcando la soglia un alito di vento freddo ricorda che si sta entrando nelle viscere della terra, il buio si fa improvviso, illuminato appena dalla luce artificiale.
La quiete è assoluta. Anche i ragazzi che fino a un attimo prima schiamazzavano nell’attesa, ammutoliscono mentre si incamminano lungo le gallerie sterrate. Sulle pareti cominciano a vedersi i primi segni della storia, le scritte a caratteri fascisti, «Silenzio! L’aria è preziosa!».
Celle e cunicoli ingombri di reperti bellici si susseguono. Casse di munizioni e maschere antigas, vestiario, strumentazioni militari, piccoli cingolati della seconda guerra. L’archivio è imponente.
Molto è rimasto, ma molto è anche sparito, portato via dallo stato maggiore dell’esercito quando il sito è stato dismesso nel 2008, ma ancor prima dai santorestesi nel ‘45. «Appena finita la guerra ci siamo precipitati dentro a prendere quello che potevano. La fame era tanta», ricorda Nando, 86 anni, una vita a lavorare nella campagna, che si commuove quando in un momento della visita viene fatta risuonare la sirena antiaerea a manovella «per chi come me i bombardamenti li ha vissuti, è un tuffo al cuore».
Passate le gallerie polverose dove a tratti si vedono ancora i cumuli di detriti provocati dai bombardamenti alleati, emerge all’improvviso la seconda dimensione temporale del museo che racconta di un’altra guerra, quella fredda, combattuta per decenni a colpi di radar e minacce di escalation.
Negli Anni ‘60 parte del bunker fu scelta dalla Nato per realizzare il più importante rifugio antiatomico italiano. Con un compito tra il pragmatismo militare e il surreale: lì, in caso di olocausto nucleare, dovevano sopravvivere anche due anni le massime cariche dello stato. Una piccola città sprofondata sotto terra, preparata a resistere per mesi al possibile inferno radioattivo in superficie.
In questo tratto, l’enorme galleria divisa su tre livelli è un miracolo di ingegneria antisismica, con pavimenti e solai fluttuanti, pronti ad assorbire l’onda d’urto che avrebbero provocato ordigni ben più potenti di quelli sganciati sul Giappone nel ’45. Non a caso, il brevetto di costruzione, dopo anni di segreto militare, diventerà il cuore tecnico del «progetto case» per i primi interventi abitativi post terremoto, come in Umbria e in Abruzzo.
Con i suoi grandi pannelli trasparenti che si illuminano, mostrando reticoli e coordinate multicolori che si rincorrono sulle mappe a disegnare i molti fronti del braccio di ferro col blocco sovietico, la War Room, struttura degna di Star Trek, rimane oggi il cuore del museo.
Pulsantiere con infiniti bottoni, dedicati ognuno a un diverso stato di allerta, arancione, scarlatto. «In quella sala sotterranea, rimasta operativa fino al ’92, governi e vertici militari hanno seguito crisi storiche come la tragedia di Ustica e i missili di Gheddafi su Lampedusa», ricorda la guida mentre mappe e schermi sulle pareti evocano i film di fantapolitica col cattivo sempre pronto a distruggere il mondo premendo un bottone.
E infatti il bunker Soratte in questi anni è divenuto il set naturale di molte produzioni cinematografiche e televisive, dal film La belva, storia di un reduce di guerra tormentato, interpretato da Fabrizio Gifuni, a Catch 22, miniserie tv con George Clooney.
Nessuno stupore quando più tardi, alla fine del tour, sul piazzale d’ingresso incappiamo in due donne con gli abiti sporchi di vernice. Una è scenografa, l’altra arredatrice, «si tratta di un film, siamo venute per preparare il set, ma non possiamo dire altro», si schermiscono come contagiate dal tradizionale riserbo di un luogo ancora oggi capace di trasmettere sentimenti ambivalenti.
Prima di aprire al pubblico il bunker è stato bonificato, perché l’amianto è stato usato anche qui. Inoltre per un bel po’ di tempo alcune gallerie furono adibite a polveriere. E in paese non tutti sono convinti che l’operazione sia riuscita.
«Quella roba tossica c’è ancora, ce la respiriamo da anni, qui ci facevano le esercitazioni, chissà che hanno fatto esplodere là sotto«, dice amareggiato Antonio, convinto che quell’ospite ingombrante di cemento armato e roccia sia ancora pericoloso. Il rapporto dei santorestesi con quel luogo misterioso, è da sempre conflittuale. Fonte di lavoro e di reddito fin dalla prima picconata. «Anche coi tedeschi abbiamo lavorato», dice Gianni, 78anni, che ricorda i racconti del padre operaio.
Però il bunker è stato anche un minaccioso e inavvicinabile presidio militare per oltre 70 anni, alimentando tanti sospetti e leggende popolari: alla fine della seconda guerra mondiale l’oro trafugato alla Banca d’Italia dai tedeschi in fuga sarebbe stato portato in queste gallerie. Ciò che il monte con il profilo dell’uomo sdraiato e del volto col naso affilato, non hai mai voluto rivelare.