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 2021  ottobre 10 Domenica calendario

Carlo "l’ammazzabimbi". Un serial killer del 1800

Si può uccidere un bambino per una birichinata, uno sfottò, una pernacchia innocente? «Uno mi tinse il viso col pennello e stetti col viso tinto per tre giorni perché era tinta ad olio... Una sera venne nella mia bottega ed io avevo fatto una buca apposita nel sottoscala in modo da mettercelo appena mi capitava in bottega. Mi capitò, lo portai là nella buca, lo gettai giù e lo coprii di terra e sopra ci misi le legni». Ci vollero due anni, ma alla fine i resti del piccolo Luigino Bonecchi vennero ritrovati sotto appena trenta centimetri di terra nel sottoscala della bottega dove Callisto Grandi, classe 1849, da insospettabile cardatore riparava carri. Luigino aveva solo quattro anni.
Nessuno immaginava che quell’orfano solitario, basso di statura, la testa sproporzionata al corpo, fosse un serial killer mosso da un disturbo esplosivo intermittente. Nessuno ipotizzava una cieca volontà assassina dietro lo sguardo di «Carlino il pelato», quello che le cronache dell’epoca descrivevano come uno tanto calvo «da non trovarsene esempio, specialmente in quell’età, con la faccia corta e con certe sporgenze ossee che, unite ai cigli e alla guardatura, lo facevano assomigliare a un ourang-outang». Callisto Grandi alias «Carlino il pelato» era «l’Ammazzabambini».
Siamo a Incisa in Val D’Arno, borgo della provincia di Firenze. Grandi viene arrestato mentre sta cercando di eliminare Amerigo Turchi di nove anni. Accade tutto in pochi minuti. Là fuori nel vialetto si raccoglie un capannello di persone, tutti richiamati dalle urla di un bimbo che pare sottrarsi al suo aggressore. Chi poggia l’orecchio al portone della bottega, chi corre a chiamare le guardie.
Dentro l’ammazzabambini sembra non accorgersene, precipitato com’è nel suo delirio omicida, sordo al brusio che a breve l’avrebbe portato dietro le sbarre. Arrivano i carabinieri, sfondano la porta e sorprendono il cardatore di paese dagli occhi fuori dalle orbite, come indemoniato, che maneggia con un’imponente ruota per passarla sopra il povero Amerigo a terra terrorizzato.
Il respiro di sollievo collettivo, quel senso di liberazione e giustizia dura solo un attimo. Perché a questo punto il brigadiere inizia a perquisire l’officina, si accorge dell’irregolarità del pavimento, in una zona d’ombra la terra battuta pare smossa di recente. Si scava e sotto trenta centimetri emergono i resti di alcuni corpicini, ossa piccole, piccolissime. E uno, e due e ancora.
In aula Grandi confesserà serafico di aver già ucciso quattro bambini nello stupore di chi ascolta. I bambini erano attratti in bottega con l’inganno. Ai piccoli «Carlo il pelato» prometteva giochi magnifici, somme di denaro, monete d’oro. E loro si affidavano all’orco, attratti dalle offerte e tranquilli di fronte a un giovane uomo che ben celava l’odio profondo che lo animava.
Ma il peggio deve ancora venire e piomba in aula quando il serial killer svela i motivi che l’hanno spinto a togliere la vita a chi la stava scoprendo: «Mi canzonavano, mi prendevano a burla, mi dileggiavano, mi dicevano pelato, ventun dito perché ho un piede con sei dita, e mi dicevano guercio e nano e mi facevano il capo grosso e quando venivano in bottega mi facevano sempre qualche birichinata». E ancora: «Uno venne nella mia bottega il giorno della vigilia di san Giuseppe, mi fece la monelleria di versarmi tre libbre di tinta, gli diedi una palata, lo ammazzai e lo seppellii lì in bottega nello sterrato e a fare la buca facevo presto, perché era terra morbida».
L’ultimo, invece, «mi cacò nel carbone, lo uccisi e lo seppellii nella buca voltato in su con la faccia e nella bocca gli pigiai la terra, e coprii tutto il suo corpo di terra, e sopra la terra ci spargevo la segatura».
Di fronte a queste terrificanti confessioni i giudici delegano agli specialisti l’analisi della sua mente. Lo psichiatra modenese Enrico Morselli manda le foto di Grandi a Cesare Lombroso che studia il caso. Entrambi concludono che l’assassino seriale non debba essere rinchiuso in un carcere ma trasferito in manicomio. Lombroso è lapidario: «Il soggetto è affetto da cretinismo con istinti crudeli e feroci».
Si apre un dibattito sulla salute mentale che presto si allarga anche all’inderogabile istituzione dei manicomi giudiziari. Da una parte la comunità medica che chiede di mandare l’imputato in una struttura idonea per i folli che delinquono, dall’altra i giudici che ritengono invece Grandi capace di intendere e progettare, insomma un uomo instabile ma sano e che quindi merita il carcere.
Morselli certifica l’imbecillità dell’imputato e spiega la sua perizia in aula: «Il solo aspetto esterno del Grandi è tale da giustificare la nostra diagnosi. Il di lui corpo, la nana statura, la stupida faccia, la pelle dappertutto glabra, il teschio brullo, lo sguardo strabico, la gibbosità della colonna vertebrale, la claudicazione, la mostruosità del piede» erano particolarità da collegare certo alle «anormità di conformazione, asimmetrie, deficienze di sviluppo, una condizione morbosa del cervello». Persino la «loscaggine dovuta a un difetto di correlazione nello stato tonico fra i muscoli degli occhi».
Insomma, osservarono gli psichiatri, «dobbiamo riconoscere che nel Grandi la natura si è abbassata sotto il topo umano, per riprodurre in lui un carattere estinto da milioni di anni». E all’imbecillità fisica segue ed è strettamente correlata quella della morale. Grandi sa leggere e scrivere dopo una dozzina di anni passati alle elementari ma queste capacità non escludono la malattia di mente.
Ma perché «Carlo il pelato» uccide bambini che nemmeno conosce? Udienza dopo udienza, il racconto di Grandi si sviluppa privo di ansia, tristezza, anche perché il soggettivo vendicativo non nutre un senso cosciente di colpa. Concepisce la rivalsa come un diritto e la soppressione come unica via da percorrere per raggiungere una quiete attesa, agognata, patita. «La ruota lo colpì nelle reni – spiega – e restarono lì stecchiti. Ora che li avevo ammazzati stavo meglio e mi lasciavano in pace».
A muoverlo è soprattutto il desiderio di vendetta. Approfondendo l‘anamnesi dei suoi stati emozionali, si individua nella perdita dei genitori la situazione detonante. Dolore e rabbia hanno innescato l’aggressività e la spirale omicida. Ma non si va oltre. Nel 1875 Grandi «in nome di sua maestà Vittorio Emanuele II» è condannato a vent’anni di carcere. Siamo in un’epoca in cui la scienza ancora non studia la vendicatività, lasciandola più alle interpretazioni di filosofi, letterari, poeti e drammaturghi. E questo sebbene ci si trovi di fronte a uno dei sentimenti più comuni e diffusi.
E quindi ci si fermò all’inspiegabile, al fatto che l’assassino di Incisa da una parte nutriva odio contro le piccole vittime, dall’altra cercava la loro esclusiva compagnia e «si compiaceva di far giuochi puerili con essi». Bisognerà aspettare il 1895 per vedere Grandi di nuovo in città, a Firenze, quando lascia l’ex monastero delle Murate per riconquistare la libertà, dopo due anni scontati nel penitenziario fiorentino, dodici a Volterra e sette all’isola di Capraia. A 44 anni si ritrova solo come sempre, l’unico suo patrimonio sono i parenti di sangue, a iniziare dalla mamma che ancora vive a Incisa e un gruzzoletto guadagnato in cella facendo il fabbro. In tutto, 700 lire risparmiate in vent’anni. Di questo tesoro se ne libererà presto.
Nei giornali dell’epoca c’è chi scrisse che lo diede in beneficenza, altri cronisti vergarono la favola del generoso regalo alle nipotine, in realtà nulla si seppe con certezza. È noto invece che, appena scarcerato, due guardie lo accompagnarono a cercare un impiego ma alla Pia Casa del lavoro il direttore Carlo Peri nemmeno volle riceverlo. E così in altre botteghe.
E’ da immaginare questo uomo goffo, accompagnato dai militari, che cammina per Firenze, per Santa Croce, cercando qualcuno che gli socchiuda l’uscio per la normalità, offrendogli un lavoro, un giaciglio. Erano passati vent’anni dall’ultimo omicidio, le guardie erano convinte che ormai fosse passato tanto tempo, ma per strada un compaesano ancora lo riconobbe, iniziò ad additarlo al ludibrio dei passanti.
Una scena di paura: si scatenò il panico e il terrore, tanto che le guardie furono costrette a portare Grandi in questura, mettendolo in una cella di sicurezza. E ora che fare? I parenti non lo volevano, i paesani neppure. Era troppo «causa di spavento – sottolineavano i giornali - specialmente nei padri e nelle madri». Temevano che Grandi potesse tornare a uccidere bambini. E così lo spediscono in quel manicomio prima evitato dove morirà nel 1911.