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 2021  ottobre 11 Lunedì calendario

Pantani nel docufilm “Il migliore”

Dal 18 ottobre in oltre 200 sale il docufilm “Il migliore” diretto da Paolo Santolini 



Un amico racconta: «Ho questo sogno che mi perseguita. Sono al Ponte del Gatto, a Cesenatico, al passaggio a livello. Io sto a monte, a colori. Dall’altra parte, in bianco e nero, c’è lui che mi guarda e mi dice: tu lo puoi fare, il mio nome rivaluta. Il mio nome rivaluta». Il nome è Marco Pantani. Nato a Cesena, morto a Rimini, ma soprattutto vissuto a Cesenatico. Il mare d’inverno. La piadina con salsiccia e cipolla. Il karaoke nel Cantatù. Gli amici: il Califfo, Jumbo, il Pavi. E lui in mezzo. Compleanno del 13 gennaio 1999: gli regalano un parruccone. Lo infila sulla testa calva e dice: «Sembro Jesus Christ!». Intorno, i suoi apostoli. Gli crederanno per sempre. Questa non è fede, è amicizia. Comincia così il film documentario Il migliore girato da Paolo Santolini per Okta e Rai Cinema, con amore e rispetto. Da lunedì 18 e per tre giorni (i “Pantani days”) sarà in oltre 200 sale a piena capienza, in tutta Italia, dove l’affetto per quello che chiamavano il Pirata non si è mai spento, né distanziato. Non è un’apologia di Marco, il suo nome lo rivaluta spiegandolo, perché nessun destino è mai individuale, è figlio di una collettività, di una terra, di una curva non assecondata, di una stagione così imprevista che poi si sa soltanto definire sbagliata. Anche qui, prima dell’ultima cena, qualcuno ha tradito. Pantani fu Giuda o il sacrificato? Si può osannare qualcuno all’alba e demonizzarlo al tramonto? Di certo non lì, non allora né ora.
Gli amici sono sempre gli stessi, ma al centro adesso hanno soltanto un ricordo, che resterà la fiamma delle loro vite. L’ascesa di uno è stata l’ascesa di tutti. Parafrasando John Kennedy, Pantani è stato “l’uomo che ha portato la Romagna a Parigi”. Ha condotto l’armata brancaleone del proletariato di riviera alla conquista dei Campi Elisi, tutti vestiti di giallo a scattare foto a qualunque cosa si muovesse. Ha reso epico e tramandabile ogni momento vissuto insieme: le passeggiate di notte al porto, l’acquisto di una moto che non sapeva guidare, le albe in pineta con il fucile in mano. Ci vuole un filosofo inconsapevole per precisare: «Si andava a caccia, non a sparare: quando si spara la caccia è finita». È da quella vita lì che nacquero l’istinto come strategia, gli scatti a ripetizione lungo le salite, la fame di vittorie. È così che si è legittimato l’orgoglio, staccandolo dalla spavalderia. In quel mondo, ammette la sorella: «Marco era troppo di tutti». E per tutti era “il santone” o, come dice uno fondendo linguaggi: “il pataca carismatico”, in un ambiente di puri, di ragazzi per sempre. La parola “droga”, una stonatura, in qualunque forma.
Madonna di Campiglio è il trauma che non si può rimuovere. È il luogo della vera caduta, dell’ematocrito alto passato per doping. Non c’è un muro contro quella possibilità: è considerata semplicemente inammissibile. Da lì inizia un’altra storia, malinconica e terminale, una manovra di distacco con il finale segnato. Parte da un simbolico e silenzioso viaggio di ritorno a casa. Dove arriva “con la fiammella spenta”. Dove scrive sulla parete: “Quel giorno a Campiglio la Madonna non c’era. Mi hanno fregato”. E dove finirà per autorecludersi.
L’ultima tappa Marco Pantani la correrà in solitudine, come sempre per scelta e dopo uno strappo. Ci sono molti modi per provare a stare accanto a chi fugge. Uno racconta che gli bastava lo spiraglio nelle veneziane al suo passaggio. O lasciargli davanti al portone una cassetta di fichi e accorgersi poi che l’aveva presa, perché ne era ghiotto.
Un film che vuole essere di testimonianza e non di inchiesta riesce comunque a suggerire un’ipotesi sulla fine del suo protagonista. Isolandosi dalla sua gente Pantani perse la bussola morale che quella, pur scombinata e variopinta, teneva in mano e gli mostrava. Si lasciò alle spalle la saggezza popolare che conosce i demoni, i vicoli ciechi e i limiti della propria forza. Credette, ancora una volta, ma poi più, di poter fare tutto, anche quello che a nessuno riusciva: entrare e uscire a piacere dalle dipendenze. Questo, forse, gli costò la vita. Quanto agli amici, non puoi chiedere loro che cosa sia veramente accaduto. Lo sanno, alla maniera di Pasolini lo sanno. Per loro “il pataca” è stato fregato a Madonna di Campiglio. Poi è stato ucciso a Rimini. Oppure: l’hanno ucciso a Madonna di Campiglio, poi fregato a Rimini. La verità è una pretesa da cui il sentimento prescinde.