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 2021  ottobre 11 Lunedì calendario

Viaggio in Afghanistan con i mercanti d’oppio

Nella sua raffineria di droga, decine di postazioni di lavoro sono desolatamente vuote. Feda Muhammad le guarda sconsolato. Il fiume di morfina ed eroina afghana che inonda l’Occidente «è in secca da 20 giorni. Fino a tre settimane fa – dice – avevo 24 operai». Ma non è preoccupato: «Per le pressioni internazionali – spiega – i talebani hanno detto che contrasteranno produzione e commercio. Il mercato si è fermato: stiamo stoccando, vedremo. Finalmente i prezzi potrebbero aumentare». Ridurre la produzione, come i talebani promettono, può essere un affare per tutti.
Per capire cosa stia succedendo, Repubblica è entrata nella tana del lupo: abbiamo trascorso due giorni tra i contadini del papavero e i trafficanti dei suoi derivati, morfina ed eroina; abbiamo conquistato la loro fiducia, condiviso il latte cagliato; abbiamo dormito con una famiglia di narcos, discutendo di Afghanistan ed eroina, e pranzato coi grossisti nel loro bazar. E abbiamo visitato quattro raffinerie nelle campagne di Lashkar Gah, il capoluogo della provincia più pericolosa e violenta dell’Afghanistan: l’Helmand.
L’85% del narcotraffico mondiale d’oppiacei nasce in Afghanistan. La produzione, stabile e con prezzi alti fino al 2000, dopo la cacciata dei talebani aumentò nonostante eradicazioni e bombe. Da 60mila ettari nel primo Emirato islamico è salita ai 224mila della Repubblica, nel 2020; il quadruplo della Birmania, secondo produttore. Il 16% del Pil afghano viene dal narcotraffico: 3 mld di dollari l’anno. La quota dei contadini è irrisoria: 347 milioni nel 2020. Una parte considerevole, invece, va nelle tasche dei talebani, che controllano le aree di produzione: era indispensabile, per finanziare la guerra.A Musa Qala, nel mercato all’ingrosso della droga, quintali di oppio passano veloci di mano: 500 dollari per un man, una borsa trasparente con 4,5 chili di melassa scura, l’oppio grezzo. Su questa sabbia arsa nessun civile occidentale ha mai messo piede: appena arrivati, mentre parcheggiamo col fiato in gola tra occhi che ci squadrano taglienti, tre sacchi – una campionatura – van giù nel bagagliaio del Toyota accanto a noi. Musa Qala è un villaggio ben protetto dal deserto oltre l’impervio e turbolento Sangin. Siamo nel cuore duro dell’Islam radicale, terra madre dei talebani, nella provincia ribelle dell’Helmand. Qui sboccia più di metà dei papaveri del Paese. Il nostro passepartout, e soprattutto il nostro biglietto di ritorno, è un commerciante di Lashkar Gah, pecora bianca di una famiglia di trafficanti. Uno dei sui fratelli ci ha fissato un appuntamento al famigerato mercato del narcotraffico. Partiti all’alba da Kandahar percorriamo la strada trafitta dagli ordigni esplosi. Nell’Helmand giriamo su una secondaria, in un panorama lunare fino all’ultimo avamposto d’Afghanistan rurale, il capoluogo spettrale del Sangin sfondato dalle bombe. Dopo il presidio di Emergency, c’è solo deserto.
Sabbia e sassi per ore, e sole a picco. Arrivati nel gran bazar di Musa Qala, svoltiamo in un vicolo claustrofobico. Il bazar dei narcotici è una piazza a elle come una tessera del “tetris”, l’unica via d’uscita è il vicolo infido. Attorno a noi c’è un alveare di cubicoli commerciali, sembrano i box auto malandati di un vecchio condominio popolare. Sono decine. Ogni box è la bottega di un grossista. Bambini incuriositi si avvicinano, gli sguardi dei trafficanti ci trafiggono. Il nostro contatto è irrintracciabile, e a Musa Qala non c’è connessione. L’autista sonda il terreno, poi fa segno di scendere: «Li ho convinti. Ho detto che c’è un giornalista italiano come Emergency, che li ha sempre aiutati».
Entrati nel box, decine di turbanti neri si accalcano a vedere lo straniero senza armi né divisa. “L’infedele” che non sgancia bombe, senza sradicatori per distruggere i campi tra i blindati e i droni. Sono apparentemente amichevoli, cordiali, curiosi, divertiti. Credono di poter ricevere aiuto o fare affari, alcuni ci offrono la mercanzia. Se volessimo una tonnellata di eroina, nessuno batterebbe ciglio. Ma la diffidenza è reciproca. «Perché gli stranieri come te ci sparavano di continuo dall’alto? Perché hanno ucciso così tanti civili? L’anno scorso – dice Abdul Khalid, 30 anni – a un matrimonio i droni hanno ammazzato duecento invitati». «In vent’anni – dice un altro – a Musa Qala non abbiamo avuto nulla dal governo né dai talebani. Non ho mai combattuto ma i miei bambini non hanno neanche la scuola». Mentre ci raccontano le sciagure di questa terra senza pace, un grossista squinterna davanti a noi un sacchetto d’oppio. Sembra l’impasto poco amalgamato di una torta al cioccolato. «Grezzo si usa come medicina – dicono – ed è afrodisiaco».
«Adesso il mercato è basso, da 15mila a 22mila rupie al chilo», dice Umar Jan. Il narcotraffico opera in valuta pachistana: siamo sui 100 dollari al chilo. In un altro box stendono a terra una tovaglia di plastica, allineano due piatti con poca zuppa e una boule di latte cagliato. Si intinge la focaccia nella zuppa con mani non lavate, tutti nello stesso piatto; si beve di bocca in bocca dai due mestoli. Una ventina di persone non pranzano. La povertà è evidente. «Vengo da un villaggio – dice Haji Abdul Raman, 55 anni – non c’è famiglia qui che non abbia sepolto tre o quattro morti. La poca acqua la usiamo per l’oppio, è l’unico modo di sopravvivere». «I bombardamenti americani ci hanno fatti a pezzi. In questi 14 anni – dice un altro – tutti i guai sono venuti dagli infedeli». Sareste disposti, domandiamo, a coltivare altro? «Siamo pronti, ma ci devono aiutare: non abbiamo nemmeno i soldi per mangiare».
A Kabul è frequente vedere persone ciondolare con la siringa nel braccio. I talebani sono ferrei nel condannare il consumo di eroina, non l’esportazione. «Contadini e raffinerie pagano loro il 10% di tasse; noi paghiamo la protezione», spiegano i narcos che ci ospitano a Lashkar Gah. Qui non è illegale ciò che fanno, ma proviamo a stanarli sul piano morale: i morti, le vite bruciate, la tossicodipendenza... «Da voi la gente muore alcolizzata ma producete l’alcol e riscuotete le tasse, anche se qui è vietato. Non è lo stesso?».
«Gli amer icani ci hanno bombardati tre volte. Questo era mio fratello maggiore, lo hanno ucciso», dice Feda Muhamad nella sua raffineria, una delle centinaia in Afghanistan. Le tecnologie necessarie sono banali: «In questi buchi sul pavimento racconta Ramat, un 24enne che ci implora di portarlo in Europa dove però la sua specializzazione non sarebbe molto apprezzata – buttiamo carbone e accendiamo il fuoco». Bagnato, scaldato e mescolato, l’oppio assomiglia a catrame fuso. Ramat mostra i bidoni e la pressa con cui, aggiungendo acqua e calce, produce morfina. «I clienti portano l’oppio grezzo – spiega Feda – e per essiccarlo pagano 100 rupie al chilo. Versiamo il 10% di tasse ai talebani». Su morfina ed eroina si guadagna di più.
«Poi spediamo al mercato di Bahr?m Ch?h», dicono i trafficanti. È un villaggio vicino all’Iran e al Pakistan. «Lì i balucistani – a cavallo dei tre Stati – prendono vie tra i monti. La droga va al porto di Karachi, in Pakistan; o in Iran, per poi entrare in Turchia». Il ruolo dei talebani invece è «tassare produzione e raffinazione e proteggere i convogli. Carichiamo fino a tre tonnellate sulle Land Cruiser, ognuna costa 2 dollari al chilo, sui 5mila a viaggio. Più 80 per ogni talebano armato».
Con un Paese alla fame, per contrastare il narcotraffico i talebani dovranno ricevere consistenti contropartite. Probabilmente si limiteranno a imporre un taglio alla produzione, una misura che potrebbe non dispiacere alla filiera: «Farà rialzare i prezzi». I più deboli resteranno contadini e braccianti come Mohamad Zamam: «La terra non è mia; la lavoro a secco, spargo il seme, inondo d’acqua. Dopo 30 giorni spunta la pianta – dice stringendo la vanga tra i papaveri – e dopo sei mesi raccolgo l’oppio». Ci mostra gli sfregi paralleli che infligge ai boccioli immaturi per estrarre il lattice essudato. Ha 21 anni, ma ne dimostra 45. Sole e fatica gli hanno bruciato le mani e solcato di rughe il viso.