La Stampa, 11 ottobre 2021
Povertà, il dramma di Beirut
«Hanno rubato i nostri soldi, i risparmi di una vita. Perché le persone restano in casa passivamente? Perché nessuno scende più in piazza a manifestare? Abbiamo perso tutto e nessuno si ribella, yalla Beirut, riprendiamoci ciò che è nostro!».
Sono le dieci di sera, le voci degli ascoltatori delle radio libanesi risuonano sulla via che dall’aeroporto Rafic Hariri conduce al centro di Beirut. Intorno la città è buia. Spenti i semafori, buie le case, buie le strade. Bui Mar Mikhael, Gemmayze, i quartieri che fino a due anni fa erano animati da giovani, studenti, turisti. Buio il quartiere di Hamra: saracinesche abbassate, vetrine su cui si è accumulata la polvere di mesi di crisi che sta affamando il Paese. Sedute a terra, sull’asfalto, decine di donne a questuare. Tengono in braccio ragazzini scalzi, sporchi. Sono quasi tutti siriani, ne vivono un milione e mezzo in Libano. I più vulnerabili tra i vulnerabili.
I distributori di benzina sono transennati. Tra luglio e agosto Electricité du Liban, la società statale dell’energia, ha garantito due o tre ore di elettricità al giorno. Sabato pomeriggio ha smesso del tutto di fornire elettricità al Paese. Ieri le due centrali sono ripartite grazie a 600 mila litri di carburante portato dall’esercito libanese. «La rete è tornata alla normalità», ha annunciato il ministro dell’Energia, Walid Fayad. Ma normalità significa che l’elettricità sarà disponibile a Beirut per due, tre ore al giorno.
In due anni la lira libanese ha perso oltre il 90% del suo valore rispetto al dollaro Usa, raggiungendo, al mercato nero, più di 20.000 lire per dollaro la scorsa estate. Tuttavia, la banca centrale, Banque du Liban, mantiene un tasso ufficiale introdotto nel 1997, che agganciava la lira al dollaro a un cambio di 1.500. La lira dollarizzata, il cambio che ha retto lo schema Ponzi che ha consentito ai cittadini di godere di una valuta stabile e di un alto potere d’acquisto per decenni. Un sistema costruito attirando capitali esteri da depositare in Libano in cambio di un tasso di interesse di oltre il 10% l’anno. I tassi venivano ripagati attirando nuovi capitali, le banche incoraggiavano le persone – soprattutto i libanesi della diaspora – a depositare denaro sapendo che non avrebbero potuto ripagare quei tassi d’interesse. Una frode gigantesca cominciata a incrinarsi quando l’instabilità dell’area ha innervosito gli investitori, dopo l’inizio della guerra siriana, e che si è inceppata irreversibilmente dopo il 2017, quando l’allora primo ministro Saad Hariri è stato di fatto rapito per dieci giorni in Arabia Saudita e costretto alle dimissioni in diretta televisiva da Riad. La fragilità dei suoi movimenti, il terrore nel suo volto erano l’inizio della caduta definitiva dell’economia del Paese. Il castello di carte è cominciato a crollare, e le persone a scendere in piazza. Era l’autunno del 2019, l’autunno della «thaura», della rivoluzione. Dopo l’annuncio di una tassa sulle telecomunicazioni il Libano scende in piazza al grido di Ashaab yurid isqaat al nizam – «il popolo vuole la caduta del sistema», Kollun yani kollun – «tutti significa tutti». Di fronte alla gente in strada per settimane le banche limitarono l’accesso ai conti dei correntisti, limitarono i prelievi, e alla fine chiusero i battenti per due settimane.
Alla riapertura il cambio dollarizzato a 1,5 era saltato. La frode smascherata. L’illusione del Paese in costante crescita era finita, i risparmi vanificati. Il sistema bancario è fallito e il debito pubblico sfiora il 180% del Pil. Chi aveva diecimila dollari di depositi, due anni fa, oggi si ritrova con 600 dollari a malapena. La pandemia e l’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto scorso hanno fatto il resto. Oggi restano solo cocci da raccogliere.
Amal vive a Naba’a, un sobborgo di Beirut, zona storicamente musulmana sciita e armeno-cristiana, una delle più vulnerabili del Paese. Dalla fine della guerra civile, negli anni Novanta, con l’arrivo di migranti asiatici e africani, Naba’a è diventata un crogiolo culturale, religioso e politico, è un quartiere oggi abitato da migliaia di rifugiati siriani e dalle fasce più fragili della società libanese.
Come la famiglia di Amal, che vive al quinto piano di un edificio fatiscente in un vicolo stretto della parte armena. La struttura porta ancora i segni dei danni provocati dall’esplosione. È passato più di un anno ma qui gli aiuti statali non si sono visti. Le porte e le finestre le hanno riparate le organizzazioni non governative. Le stesse che oggi le portano i pacchi alimentari.
«Viviamo all’inferno» è la prima cosa che dice accogliendoci sulla porta di una casa dignitosa. Appesi alle pareti i disegni fatti dai suoi tre figli, due ragazzi adolescenti di 13 e 16 anni e una bambina di otto. Appeso al frigorifero un paesaggio disegnato dal più grande, Mustafa. Un giovane dal sorriso affabile, premuroso con sua madre, sempre. La segue con lo sguardo mentre lei racconta la cronaca di un costante sacrificio. Inizia dalle regole, Amal: «È vietato aprire il frigorifero», in casa c’è un’ora di corrente al giorno e non possono permettersi il carburante al mercato nero. Il poco cibo fresco che si riesce ad acquistare è chiuso in frigorifero, che non va aperto affinché non vada a male, «mi sto abituando a non cucinare» dice, «come ci siamo abituati a lavarci con l’acqua fredda. È un anno e mezzo che non abbiamo l’acqua calda».
L’ultima volta che in casa hanno mangiato la carne è stato tre mesi fa, oggi le abitudini alimentari sono cambiate: solo riso e lenticchie. Amal ne prende una scatola da un chilo dal pacco alimentare, un anno fa costava mille lire libanesi, oggi ne costa ventiduemila: «Un anno fa questo era il cibo dei poveri – dice –, oggi i poveri non se lo possono permettere».
Amal lavora in uno dei ristoranti di lusso della costa che conduce ai faraglioni di Rouché, guadagna 700 mila lire libanesi. Un anno fa valevano circa 500 dollari, oggi 36. Lo stesso per suo marito che è autista. Così la scorsa estate Amal e suo marito hanno dovuto chiedere ai due figli adolescenti di andare a lavorare, è successo dopo che in una bottega lei ha realizzato di non avere abbastanza soldi neppure per comprare le candele «quindicimila lire per la scatola, prima ne costavano mille».
Al racconto dei suoi sacrifici di adolescente Mustafa piange, un pianto composto, degno come quello di sua madre «non vorrei che lavorassero, vorrei che vivessero la loro età, che avessero l’adolescenza che meritano. Ma non avevamo scelta».
Due anni fa anche Amal era in piazza, guardava al futuro pensando che la forza di quella protesta avrebbe regalato un Libano nuovo ai giovani, una protesta viva, non animata da spiriti settari in un Paese in cui ogni cosa, dal governo agli affari, è spartita su base confessionale, «ci hanno impoverito, ci hanno portato via i sogni della rivoluzione, perdevamo tutto mentre loro mettevano in salvo i soldi all’estero».
Mentre le banche con problemi di liquidità trattenevano i depositi dei libanesi per evitare la fuga dei capitali, miliardi di dollari sono stati trasferiti all’estero da politici, imprenditori e banchieri. Secondo l’economista libanese Mahasin Mursil dopo il 17 ottobre 2019, data di inizio delle proteste, circa 10 miliardi sono stati trasferiti all’estero dalla classe dirigente del Paese, numeri aggravati dai recenti documenti dei Pandora Papers che hanno svelato la rete di società offshore del primo ministro Mikati e della sua famiglia, del governatore della Banca centrale Riad Salamé, dell’ex premier Hassane Diab e dell’ex direttore della Mawarid Bank, Marwan Kheireddine.
In due anni, in Libano, la forbice della disuguaglianza sociale si è divaricata.
Fatma è una sarta, anche lei vive a Naba’a. Anche lei sopravvive con un’ora di elettricità al giorno. Alle tre del pomeriggio il posto in cui vive è già buio, è un garage che ha adibito a casa e bottega insieme. C’è un materasso su una rete scalcinata, un lavandino e un water con una tanica d’acqua. E ci sono sei macchine da cucire, «un tempo il rumore dell’ago e dei pedali riempivano l’aria», dice.
Il lavoro era così tanto che anche sua madre, anziana, doveva darle una mano per non tardare le consegne. Oggi i fili, le stoffe, i ricami, le spille, sono un altare alla memoria di un tempo andato. Una foto ritrae una donna in carne, è la lei di un tempo che non c’è più. Oggi Fatma ha un corpo esile che non è un corpo magro, è un corpo asciugato dalla fame.
Non può comprare nemmeno un manaush, il tradizionale pane coperto di spezie. Costa 1000 lire libanesi, cinque centesimi. Non se li può più permettere.