la Repubblica, 11 ottobre 2021
Intervista a Pierluigi Ciocca - su "Ricchi/ poveri. Storia della diseguaglianza" (Einaudi)
L’economia capitalistica di mercato porta con sé come una tara le famose tre "i": instabilità, inquinamento, iniquità. La terza, madre di tutte le disuguaglianze, ha le radici più antiche: "Insopportabili disuguaglianze, "al netto" del dramma della schiavitù, sono segnalate fin dai primi insediamenti umani: i sumeri della Mesopotamia del 3-4mila avanti Cristo, gli egizi che si svilupparono pochi secoli dopo, gli abitanti della Valle dell’Indo del 2600 a.C., la Cina nel 2100", spiega Pierluigi Ciocca, studi a Oxford alla fine degli anni ’60, economista dalla prestigiosa carriera fra la Banca d’Italia dove ha trascorso quarant’anni (è stato capo dell’ufficio studi e vicedirettore generale) e l’accademia dove tiene tuttora conferenze. Adesso che ha un po’ più di tempo, si è gettato nella ricerca storica e ha scritto un libro sorprendente per ricchezza di documentazione (esce in settimana da Einaudi), "Ricchi e poveri". Una storia delle disuguaglianze dalle origini dell’"uomo sociale" a oggi: leggerla significa immergersi in un excursus lungo 5 mila anni con informazioni inedite, paralleli con l’attualità, testimonianze spiazzanti. Sempre alla disperata ricerca di una soluzione alle ingiustizie e alle vessazioni.
Noi moderni non abbiamo inventato nulla?
"Temo di no. La disuguaglianza nasce appena prende forma qualcosa di simile a uno Stato. I nostri progenitori si organizzano, per imbrigliare un fiume, organizzare una spedizione, dividersi le terre, e subito - al di là di alcune gerarchie inevitabili - si sviluppano differenze di reddito e di patrimonio, inizialmente fondate sul potere e in seguito sui rapporti economici. Perfino laddove si crea una primordiale democrazia: nella Grecia di Pericle l’indice Gini era dello 0,70, peggiore di qualsiasi Paese, anche il meno democratico di oggi. E ci sono racconti dei tentativi di Pericle di occultare questa realtà per non minacciare il suo potere e macchiare la sua immagine che in effetti è arrivata fino a noi come quella del leader magnanimo ed equo".
Ma come faceva Corrado Gini, statistico italiano del Novecento, a sapere quanto guadagnavano nell’antichità i nobili, i feudatari, gli operai, i soldati?
"Non lo sapeva lui ma gli storici che confrontano migliaia di fonti originali, scovano testimonianze sporadiche nei testi dell’epoca, seguono con rigore la logica deduttiva. Gini elaborava gli indici con i dati: il difficile era attualizzarli e trovare parametri comparabili. Su questa ricostruzione si cimentano prestigiosi economisti e storici, leggerli insegna e fa riflettere".
Per esempio?
"La Cambridge University ha pubblicato nel 2015 un’illuminante analisi storico-comparativa dei redditi in Europa. Nel 1348 il prodotto pro capite era di 777 dollari (attualizzati al 1990) in Inghilterra, di 876 in Olanda e di ben 1.376 in Italia. Era l’apice dello sviluppo mercantile dei Comuni, delle Signorie e dei Principati che contrappuntavano la penisola. Tre secoli, dall’anno Mille, di boom economico: mentre nelle città aumentava la concentrazione di ricchezza, le flotte commerciali di Genova e Venezia dominavano i traffici nel Mediterraneo, l’industria esportava le sue pregiate produzioni, le banche italiane avevano succursali in tutta Europa e gestivano la circolazione del denaro da un Paese all’altro".
Nel 1348 però scoppiò la peste nera, come ci hanno ricordato mille volte in questi mesi...
"Malgrado non ci fossero i vaccini, l’epidemia passò e i nostri "pre-concittadini" ripresero subito la loro febbrile attività, tanto che nel 1450 il reddito pro-capite in Italia era di 1668 dollari e in Inghilterra di 1055. Nel 1600 le differenze si ridussero: 1244 contro 1123. Poi il sorpasso. In quella che era intanto (nel 1707) diventata Gran Bretagna ci fu a fine ’700 la rivoluzione industriale e allora, come dire, non ce ne fu più per nessuno".
In tutto questo qualcuno si preoccupava delle disuguaglianze?
"Non direi. Il primo a notarlo fu Adam Smith nel 1767: "I salari non fluttuano insieme al prezzo dei viveri che variano di anno in anno". In Gran Bretagna, dal 1264 al 1954 vi furono solo tre aumenti nominali di paga fra gli operai. Anche all’interno delle stesse categorie svantaggiate nessuno correggeva gli squilibri: dalla battaglia di Agincourt (1415) alla Riforma di Enrico VIII (1534) un mastro muratore percepí 6 pence al giorno. Eppure dal 1412 al 1912 il suo salario è restato del 50% superiore a quello di un manovale".
Venendo ad oggi, la pandemia quanto ha aggravato le diseguaglianze?
"La Banca Mondiale calcola che 100-150 milioni di esseri umani siano precipitati in povertà assoluta, quella da meno di 1,90 dollari al giorno, una coorte di 800 milioni di sventurati, il 10% della popolazione globale. Anche in Italia le conseguenze sono gravissime: su parametri adeguati al nostro Paese, 6 milioni di persone vivono in povertà assoluta. La nostra crescita stagnante da 25 anni, a meno che non si riesca davvero a invertire la situazione, non autorizza l’ottimismo. La crescita è il carburante della lotta alle disuguaglianze, insieme con misure di sostegno, progressività fiscale, welfare. Strumenti di cui possiamo disporre e dobbiamo adottare. Altrimenti è in pericolo la democrazia".
È anche una questione di opportunità.
"Mio padre, preside in un istituto pubblico con qualche autonomia finanziaria, agevolava in tutti i modi i più poveri, gli pagava i libri, le gite scolastiche: così aumentava le possibilità di riscatto per i più sfortunati".
Ma perché l’Italia non è più cresciuta?
"Il Nobel Edmund Phelps, che avevamo invitato in Banca d’Italia, mi disse: vi siete ubriacati di troppo sviluppo. Dopo il boom del dopoguerra gli italiani hanno perso mordente e si sono adagiati sui soldi messi da parte. Ora c’è un nuovo "dopoguerra" e chissà se ritroveremo quella grinta, quell’onestà, quell’umiltà".