Corriere della Sera, 11 ottobre 2021
I danni che il maltempo può fare all’Italia
Venti nubifragi soltanto martedì scorso, undici al giorno di media nelle ultime due settimane, tornadi dal Polesine a Catania, bombe d’acqua da Otranto ad Albignasego, frane sulle Dolomiti, un borgo della Valle Stura tra i titoli della Cnn per un diluvio mai visto da settantacinque centimetri d’acqua in poche ore. E laggiù in fondo in fondo al Delta padano il barcarolo Fabrizio Boscolo, nato e cresciuto in una capanna di canna e di paglia senza pavimento scruta preoccupato il Po che monta sotto una bora forsennata… Serve altro, per avere un’idea dei cambiamenti climatici?
Poi magari tornerà il sole. E tornerà. Ma questi giorni d’autunno dicono che l’inverno potrebbe essere pesante. Tocchiamo ferro? Tocchiamolo. Ma in un Paese come il nostro colpito dal 1900 al 2002 (dati Cnr) da circa 29.000 alluvioni in 14.000 luoghi di un po’ tutta la penisola, un Paese che conta (lo ricorda l’ultimo dossier Ispra) oltre 620.000 frane censite (due su tre in Europa) delle quali il 28% «fenomeni a cinematismo rapido (crolli, colate rapide di fango e detrito), caratterizzati da velocità elevate fino ad alcuni metri al secondo, e da elevata distruttività, spesso con gravi conseguenze in termini di perdita di vite umane», non è il caso di affidarsi solo alla buona sorte.
Prendiamo la Liguria. «Da Bocca di Magra al confine francese, per trecento chilometri, è un bagnasciuga di cemento», scriveva furente cinquantacinque anni fa Indro Montanelli. E per altri cinquantacinque anni si è continuato a costruire.
«Numeri da boom economico!», esulta sul fronte degli edili un comunicato della Cgil ligure. Ben per loro. Dopo la pandemia. Ma per quello che era il «giardino d’Europa» dove il 23% del territorio utile cioè il doppio della media italiana è stato già cementificato? Ovvio che diano fastidio, numeri come quelli forniti da Alessandro Trigila di Ispra, ma vogliamo rimuovere il dato che nelle zone a rischio a meno di 150 metri da torrenti che a volte si gonfiano e precipitano a valle come le cascate dell’Iguassù, è stato sepolto dal cemento il 19,2% del territorio utile cioè il quadruplo della media italiana?
Certo, correre ai ripari adesso, schizzando da una parte all’altra dell’Italia con la cerata inzuppata sotto l’acqua, è indispensabile. E va fatto. Soprattutto in aree in cui gli incendi di quest’estate torrida (per il 57% accesi da delinquenti) hanno distrutto almeno 158.000 ettari di boschi e foreste, in larga parte in Sicilia e in Calabria che già pativano tutte le pene d’un territorio disastrato. Coi soldi del Pnrr che prevede un «rafforzamento della capacità previsionale degli effetti del cambiamento» e la «prevenzione e il contrasto delle conseguenze del cambiamento climatico sui fenomeni di dissesto idrogeologico e la vulnerabilità del territorio», però, c’è da aspettarsi una svolta vera. Storica.
Tanto più con un capo del governo come Mario Draghi che rivendica la scelta di «non seguire il calendario elettorale». Quello che da anni impedisce il varo di una riforma già fatta, con modalità diverse, in buona parte dell’Europa. Dall’Austria alla Norvegia, dalla Francia alla Romania, dalla Spagna («fin dall’epoca della guerra civile») alla Turchia… E cioè la piena conferma che lo Stato, come sempre è stato fatto negli ultimi decenni, continuerà a farsi carico dei soccorsi, dell’emergenza, della ricostruzione di strade, ponti, scuole, ospedali e tutti gli edifici che appartengono a tutti. È indispensabile però (i costi delle calamità naturali sono cresciuti nel tempo da circa 3 miliardi e mezzo a sette l’anno: un peso insopportabile) che almeno in parte i danni alle proprietà private siano risarciti da assicurazioni private. Una strada obbligata («Lo Stato siamo noi» direbbe Piero Calamandrei) sotto il profilo finanziario, ambientale, educativo. Di cui sono pressappoco consapevoli un po’ tutti ma che da anni non passa le forche caudine di quanti, da una parte e dall’altra dei fronti partitici, fanno a gara per strillare: «No alla tassa sulla jella». Come fosse stata quella a far crollare nei decenni case, ponti e ospedali tirati su con sabbia, mazzette e mastice. Demagogia.
Riassumiamo? Le abitazioni esposte al rischio sismico, soprattutto lungo l’Appennino dove sono stati registrati in gran parte i 120 eventi sismici dall’Unità d’Italia ad oggi (34 apocalittici, 86 «minori»), per un totale di circa duecentomila morti e 1.560 comuni italiani (uno su cinque) coinvolti, sono il 35%. Tantissime: non è un caso se sei dei dieci disastri più gravi dell’ultimo mezzo secolo in Europa han colpito qui. Non bastasse, le case a rischio di frane e alluvioni sono il 55% e quelle a rischio sismico o idrogeologico addirittura il 78% del totale. Eppure, pare impossibile, i proprietari assicurati contro gli incendi arrivano a malapena al 50% e quelli contro le calamità naturali al 5%. Uno su venti. Gli altri si affidano a un «Pateravegloria» o toccano un cornetto di corallo. Tanto c’è lo Stato…
Ma è giusto? Anche nel caso di case costruite spesso senza un minimo di rispetto per i piani regolatori, le leggi di tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, i regolamenti comunali, le ordinanze dei vigili e perfino il buon senso? Magari usando soldi degli incentivi non per consolidare o risanare una casa a rischio ma per rifare il bagno con piastrelle nuove? Chiaro: il progetto di alleggerire il carico dello Stato (cioè di tutti noi) coinvolgendo i privati va messo a punto nel modo giusto. Tenendo conto ovviamente di quanto lo sforzo di fare una polizza (in genere abbinata agli incendi) possa essere gravoso per una parte dei cittadini. O della tentazione delle compagnie più ingorde di farsi carico volentieri dei bassi rischi sismici in Sardegna stando alla larga dai clienti calabresi o friulani. Tutto da vedere. Capire. Mediare. Concordare.
Ricordando sempre, a proposito di Calamandrei e dei suoi scritti raccolti da Chiarelettere, quell’aneddoto sul piroscafo nella tempesta e il passeggero che corre ad avvertire l’amico dormiente: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda!». E l’altro: «Che me ne importa, non è mica mio!».