il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2021
In Australia gli aborigeni esiliati dalle loro terre si stanno suicidando in silenzio
Solo nella prima metà del 2019 ci sono stati almeno 35 suicidi di aborigeni australiani, tre dei quali avevano appena 12 anni. Nel 2016 a togliersi la vita è stata una bambina di 10 anni, dopo aver subito vessazioni e abusi. Solo questo basterebbe a spiegare la gravità di quella che gli esperti chiamano “la strage silenziosa degli indigeni australiani”. Ad oggi, secondo gli ultimi studi del governo australiano, nel 95% delle famiglie aborigene c’è stato almeno un caso di suicidio. Il fattore che più spaventa, però, è il tasso di suicidi giovanili tra gli aborigeni: il più alto di tutti i Paesi del mondo, ad eccezione della Groenlandia.
Le vittime per il 68% hanno meno di 30 anni e per il 27% meno di 20, e in particolare per gli aborigeni delle Isole dello stretto di Torres l’aspettativa di vita alla nascita è di 10-15 anni inferiore a quella degli altri australiani. Per intenderci: il tasso di suicidi fra i giovani aborigeni tra i 15 e i 24 anni è quattro volte maggiore rispetto a quello dei coetanei non indigeni; sotto i 14 anni è addirittura nove volte maggiore. “Quanti suicidi saranno necessari per far aprire le nostre orecchie al grido silenzioso che viene dai cuori e dalle anime di coloro che se ne sono andati, e di coloro che soffrono e continuano a gridare aiuto?”, spiega Cheri Yavu-Kama Harathunian, anziano della tribù aborigena Kabi Kabi.
Perché succede questo? Traumi da abusi provocati dai genitori adottivi o dalle stesse comunità, razzismo, sfratti e povertà, ma anche alcol, droghe, gioco d’azzardo e prostituzione sono i principali fattori che spingono questa popolazione all’estremo gesto, diventato oramai una pratica normalizzata. Normalizzazione, proprio così. Secondo l’Australian Institute of Aboriginal, sono talmente tanti i casi fra i giovani che il suicidio viene visto spesso come l’unico, estremo rimedio per attirare più attenzioni. “Le indagini e le ricerche psicologiche hanno dimostrato che durante le cerimonie funebri tradizionali – che durano giorni – i giovani notano la maggiore considerazione che il defunto ottiene, e ciò li spinge a togliersi la vita solo per avere lo stesso trattamento”, spiega il rapporto. “Il suicidio giovanile non è un problema solo per gli indigeni australiani, ma anche per quelli del Canada, degli Stati Uniti e della Nuova Zelanda. E l’unica cosa che abbiamo in comune è la storia della colonizzazione”, afferma la professoressa Pat Dudgeon, donna Bardi e prima psicologa aborigena australiana.
La strage silenziosa parte proprio da questo: le civiltà aborigene in Australia, come notifica il rapporto condotto dal coroner del Western Australia Ros Fogliani, sono al centro di distorsioni intergenerazionali da ben 150 anni: la Stolen generation, o generazione rubata, è il nome con cui vengono indicati i bambini australiani aborigeni e isolani dello stretto di Torres allontanati dalle loro famiglie da parte dei governi federali australiani e dalle missioni religiose. Ufficialmente per salvarli dall’estinzione, in pratica per crescerli secondo le pratiche e gli stili di vita della civiltà occidentale. Dal 2008 a oggi il numero di bambini aborigeni “in cura” – e quindi sottratti alle famiglie di origine – è aumentato del 65%.
A questi bambini è stato vietato di parlare la loro lingua tradizionale, gli sono stati cambiati i nomi, sono stati tagliati del tutto i legami con i genitori. La nuova vita è stata accompagnata da violenze e abusi, tanto negli istituti di accoglienza quanto nelle famiglie affidatarie. Il governo australiano ha recentemente varato un pacchetto milionario per risarcire proprio la generazione rubata, si tratta di un risarcimento di oltre 60mila dollari a testa, nell’ambito di un piano per ridurre le disparità sociali che tuttora subiscono le comunità indigene australiane. Peccato che c’è differenza fra idea e azione. A scatenare il fenomeno dei suicidi, infatti, è stato anche il processo di gentrificazione che ha “spinto molti aborigeni lontano dalle terre natìe, il che per molti anziani delle comunità ha provocato anche un allontanamento dalla cultura tradizionale”, commenta Julie Tommy Walker, leader aborigena e donna Innawonga.
Il governo di Scott Morrison ad oggi non ha in programma nessuna politica sociale in merito, al contrario si sono intensificati i blitz e i controlli nei villaggi degli aborigeni. Al tal punto che gli indigeni detenuti rappresentato il 29% della popolazione carceraria – anche se costituiscono solo il 3% della popolazione australiana –, e il 65% per quanto riguarda i giovani detenuti. Cosa ha provocato questi arresti? Secondo gli ultimi dati, dal 2008 ad oggi ci sono stati almeno 434 decessi (tenuti pressoché nascosti dal governo) di indigeni in custodia. Aggravando, se possibile, un’emergenza per troppo tempo ignorata.