Robinson, 9 ottobre 2021
Intervista a Werner Herzog - su "Il crepuscolo del mondo" (Feltrinelli)
Werner Herzog non ha un cellulare e non frequenta i social media, ma chiacchiera su Zoom. Si collega dalla sua casa di Los Angeles dove ha trascorso il tempo del lockdown senza sprecarlo: si è dedicato a tre film (più o meno quanti ne vede in un anno) e ha scritto due libri. Il primo, in uscita in Italia con il titolo Il crepuscolo del mondo, ricostruisce liberamente i trent’anni passati nella giungla a combattere una guerra già finita, "una guerra senza gloria", da parte del tenente Hiroo Onoda, meglio noto come "l’ultimo giapponese". È stata, a modo suo, una delle lunghe marce di Herzog, per arrivare accanto a un uomo che di marce ne compì una infinita e illusoria: "ogni suo passo era già il passato e ogni nuovo passo il futuro. Dov’era il presente? Il presente non può esistere".
E alla fine lo ha raggiunto e incontrato, l’ultimo giapponese...
"Sì, molte volte".
Ma ha deciso di raccontarlo in un libro, a parole, non con le immagini. Perché?
"L’ho sentito così. Questo libro ha vissuto dentro di me per vent’anni. Poi quando, come tutti, sono rimasto chiuso in casa senza poter uscire, allora l’ho scritto".
Una sorta di effetto collaterale del Covid...
"No, l’avrei scritto comunque. Era in me anche quindici anni fa, otto anni fa, tanto che poi l’ho scritto molto velocemente".
Si racconta che questo sia il suo metodo: gestazioni lunghissime, parti lampo. Funziona sempre così?
"Vale per le sceneggiature. Quelle le scrivo in quattro o cinque giorni. Un libro richiede più tempo, ma in genere le idee mi si concretizzano con veemenza".
La storia del tenente Onoda ha colpito il mondo intero. Lei che in Giappone ha preferito incontrare lui piuttosto che l’imperatore, come spiega questa sua fascinazione? È la passione per chi affronta l’estremo, come Fitzcarraldo, come l’aviatore Dieter Dengler prigioniero in Vietnam o l’intagliatore Steiner estatico nel salto dal trampolino con gli sci? È perché all’estremo sopravvivono?
"La capacità di sopravvivere è una cosa, ma in Onoda c’è molto di più. Lui, solo nella giungla, comincia a leggere il mondo, legge i manifestini che gettano dagli aerei, i giornali che riesce a trovare, ogni singolo momento di una corsa di cavalli a Tokyo, analizza qualsiasi dettaglio correttamente e lo mette insieme per ottenere una visione del mondo. La sua visione gli dice che la guerra sta continuando. Capisce con esattezza che ci sono aerei in volo diretti verso ovest nel 1951, ’52, ’53, ma sono altre guerre, successive: Corea, poi verrà il Vietnam. Per me il punto è come creiamo la fantasia del nostro mondo, la costruzione all’interno della quale conduciamo la nostra esistenza, che è una forma di performance. Mi colpisce l’intensità quasi religiosa con cui allestiamo il teatro delle nostre vite. Alla fine Onoda non è altro che un fantasma che combatte una guerra fittizia, completamente immerso in questa finzione".
E dunque in un certo senso ha ragione anche se equivoca su tutto?
"Sì, perché interpreta correttamente i particolari ma ricostruisce erroneamente tutta la situazione".
Non è una cosa che accade anche ad altri, a molti, pur senza essere dispersi in una giungla?
"A tutti, è una cosa che succede a tutti. Soprattutto con i ricordi: galleggiano nelle nostre menti e siamo noi a organizzarli, a dare loro una forma, per questo la memoria non è affidabile: non rispecchia la realtà come è stata".
Chi rifiuta una realtà, almeno in Italia, è chiamato "ultimo giapponese", ma si conferisce una sorta di nobiltà al fatto di restare fino all’estremo nella propria convinzione. Esiste questa nobiltà?
"Non sopravvalutiamo. Ricordiamo che Hitler definì Mussolini l’ultimo romano, quindi ci andrei piano nell’assegnare qualità".
Lei non è a suo modo un ultimo giapponese? Non è rimasto il solo a dedicarsi alla sua arte nel modo in cui lo fa?
"Chiunque pensi che io sia marginale, che operi alla periferia della mia attività si sbaglia di grosso. Ne sono al centro, nel pieno centro".
Anche quando sceglie di raccontare la storia di un disciplinato fantasma? La disciplina l’affascina?
"Non certo quella militare, quella non richiede cervello, è un riflesso. Mi affascina la disciplina come qualità necessaria per creare, la disciplina di Michelangelo. Quanto a Onoda, gli fu detto: fatti le tue regole, combatti la tua guerra e non cercare più alcun contatto. E lui creò un sistema efficace per non essere catturato. Quella fu la sua opera".
Quando infine si arrese, sentì un anziano che aveva fatto la guerra commentare: "Visto? C’era bisogno dell’atomica per finirla. Altrimenti gente come quella sarebbe andata avanti per sempre". Solo i giapponesi hanno la resilienza assoluta?
"No. Esistono esempi del genere in altre culture. Gliene dico uno: Quinto Fabio Massimo detto il temporeggiatore. Questa sua scelta di procrastinare la battaglia, la decisione di non decidere gli attirò lo spregio, il ridicolo, ma a lui non importò, accettò di essere definito un vile pur di raggiungere il suo scopo. Ancora oggi si parla del coraggio di Annibale e si considera Quinto Fabio Massimo un codardo, ma fu lui ad avere il vero coraggio, lui a farsi sfottere pur di salvare Roma e l’occidente. Fa parte della disciplina anche la capacità di accettare l’umiliazione per un giusto fine".
Mi sfugge il giusto fine di Onoda. Quale era?
"Nella sua mente la guerra continuava, non capì mai che era finita. Si batteva per il suo Paese".
È un fine giusto in sé? Anche se il suo Paese stava dalla parte sbagliata?
"Userei prudenza nelle definizioni, evitando quelle di carattere morale. Preferisco dire che Onoda e il suo Paese stavano dalla parte dei perdenti. Anche se non ha senso dire che perse o vinse. Tecnicamente sì, ha perso, ma è irrilevante. Nella sua anima questo non contava".
Non sono perdenti quelli che si rifugiano lontano dalla realtà? Per restare al Giappone, gli hikikomori, i ragazzi che si chiudono in una stanza? O chi vive nella bolla dei social?
"Tutti viviamo in una diversa realtà, perché ognuno ne ha la sua percezione. E tutti interpretiamo un ruolo. È un po’ come nel film che ho girato, sempre in Giappone, Family Romance, sull’agenzia da cui si affitta qualcuno per fargli fare una parte. Affitti un amico, ci esci a bere, passi una bella serata, addio. Ma stai meglio. Una donna gay con la famiglia conservatrice affitta un finto marito per il giorno delle finte nozze, tutti sono contenti e la vita diventa più tollerabile. Se vai allo stadio tu e gli altri tifosi inscenate una recita. Solo i calciatori sono reali. Fai il servizio militare: una recita. Ti sposi: una recita. Vai a messa: una recita, specialmente per il prete".
Come possiamo accorgerci del confine tra realtà e fantasia?
"A fatica, perché è offuscato e perché spesso preferiamo non dirci che siamo in una fantasia. Non vogliamo saperlo".
Confondiamo realtà e sogno?
"Non io. Io non sogno. Mai. O meglio, una volta l’anno. E niente di speciale. Ricordo ancora l’ultimo sogno che ho fatto, un anno fa: mangiavo un panino a pranzo. Gli psicologi ci hanno convinto che tutti sogniamo, ma io sono la prova vivente che non è così. Sarà perché sono troppo attivo nella vita reale, non ho un vuoto da riempire con i sogni. In compenso, li faccio ad occhi aperti. Soprattutto mentre cammino, nelle mie lunghissime camminate, come quella che feci lungo il confine di tutta la Germania. Lì entro in un romanzo, ne divento un personaggio, o in una partita di calcio, come giocatore. Poi l’arbitro fischia la fine, ma io continuo a camminare".
E continua a pensare che, come per Onoda, l’onore sia importante, addirittura decisivo?
"Onore è una parola fuori moda, come virtù, o castità. Avvengono cambiamenti culturali e sostituiscono valori. Ci rimettiamo qualcosa? Alcuni di questi valori che abbiamo appena nominato mi appartengono ancora, ma questa è una cosa che ha rilevanza soltanto per me, che guida la mia condotta, niente più che un fatto privato".
Certo, ma la vita sociale si svolge intorno a valori condivisi che da individuali diventano comuni. Che succede se smettiamo di apprezzare l’onestà, o la sincerità?
"Mentire è uno strumento della politica, lo è sempre stato. Oggi è soltanto più visibile per effetto della televisione o di Internet".
Resta l’obiezione: possiamo assoggettarci a scelte valoriali che non condividiamo? Smettere di vedere i film di un regista per i suoi comportamenti privati, rimuovere i quadri di Caravaggio perché fu un assassino?
"Risponderò con un’altra domanda. Eliminiamo il vecchio testamento perché da giovane Mosè commise un omicidio doloso? Penso di no. E penso che debbano essere visibili i film di Woody Allen, anche se non li amo. D’altronde siamo due specie di registi diverse: lui non potrebbe mai girare un film nella giungla e io non potrei mai farne uno a New York raccontando la vita di gente nevrotica".
Lei preferisce la natura, ma è ricambiato?
"La natura non ricambia niente e nessuno, è indifferente, non è buona o cattiva, è e basta, non le interessa quel che facciamo. La foresta vergine non conosce il tempo, sono fratelli divenuti estranei , la loro comunicazione è ridotta a una reciproca forma di disprezzo. C’è un solo modo di affrontare la natura, quello di Onoda: adottarla, diventarne parte fino a rendersi invisibili".
E fuori dalla giungla, nelle città, chi vuole battersi per una causa ha più probabilità di successo cercando la massima visibilità o confondendosi fino a sparire?
"Mi ci faccia pensare, per almeno due anni... È una questione interessante: come hanno fatto i terroristi dell’undici settembre a rendersi invisibili ad Amburgo e in Florida? È affascinante. D’altronde anche i veri potenti non li vedi mai, non vanno in televisione a raccontarsi. Chi conosce l’imperatore del dentifricio? O il miliardario che ha possiede le rotaie di mezzo mondo?".
O Bansky?
"Quella è un’altra storia, una tecnica di marketing".
Anche Elena Ferrante?
"Sì. Ma non per questo mia moglie la ama di meno come scrittrice".
Lei vorrebbe rendersi invisibile?
"Magari, ma non posso. Lavoro con troppa gente e per troppa gente. Ho scelto il mestiere sbagliato. Solo a Tokyo ci sono riuscito. Sono andato tra la folla con una telecamera e nessuno si è accorto che stavo girando un film".
Lei non passa per empatico. Con Onoda invece sembra aver funzionato. Che cosa univa un regista europeo che vive in America e un ex soldato giapponese trasferito in Brasile dopo trent’anni nella giungla filippina, un vagabondo e un samurai?
"Non lo so, so soltanto che il rapporto è stato tanto immediato quanto profondo. Gli ho fatto domande che nessuno gli aveva fatto, perché conosco la giungla e sono un camminatore, ma la connessione interiore non so spiegarla. Capita di incontrare qualcuno e sapere che da quel momento siete amici e sempre lo sarete. Anche se poi Onoda l’ho perso per via della lingua. Non ne avevamo una in comune, non potevo telefonargli".
Le capita spesso di fare amicizie così?
"No, ma gliene rivelo una che forse la sorprenderà: Baresi".
Franco Baresi, l’ex calciatore?
"Proprio lui. Sono un suo grande ammiratore. Ne parlo anche nel prossimo libro. Baresi sapeva leggere lo spazio, le partite, i movimenti degli avversari. Leggeva il gioco meglio di chiunque. Lo chieda ai conoscitori del calcio, agli ex campioni: nomini Baresi e si inginocchieranno. Io e lui ci scriviamo email da qualche tempo. Ci incontreremo. Avverrà nella fattoria dove è nato, in Lombardia. Berrò il vino dei suoi vicini, mangerò il pane della nonna e canteremo insieme. Dopodiché resteremo amici per tutta la vita. Lo so perché io so leggere il cuore umano come lui leggeva le partite".
A proposito di amici, la sua amica Lotte Eisner, quella per la cui salute lei andò a piedi a Parigi, partendo da Monaco, quella che poi visse per altri otto anni, quando la vide per l’ultima volta le disse una frase che mi ha colpito: "Sono sazia di vita". Somiglia all’ultima riga del libro di Giobbe: "Morì vecchio e sazio d’anni". Come si arriva a quella sazietà?
"Lotte usò un’espressione biblica in maniera quasi casuale, senza enfasi, tra due sorsi di tè".
È uno scopo della vita, quello di saziarsene?
"Sì. E lo si può raggiungere in modi diversi: anche facendo il contadino in Puglia o coltivando vigne in Toscana, ognuno cerca quel che lo soddisfa".
Qual è il cibo che la porta verso la sazietà?
"L’intensità che metto nelle cose che faccio. E io ne faccio di strane. Metto intensità, è vero, anche nel fare il vino o allevare le piante, ma poi io sono uno che ha ipnotizzato l’intero cast di un film, che ha fatto scalare la montagna a una nave, che ha attraversato il deserto del Sahara, due volte. Mi sono preso rischi anomali per un regista".
Ed è sazio?
"Non me lo chiedo. Preferisco continuare ad appassionarmi".