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 2021  ottobre 10 Domenica calendario

Ritratto della contessa di Castiglione


Beati i tempi delle missive, dei biglietti galanti, delle lettere personali in cui si intrecciavano pubblico e privato e dietro i destini individuali erano ben visibili le ombre della società.
Beati, quei tempi, soprattutto per noi posteri, che attraverso gli epistolari del passato proviamo il piacere di infilarci dietro le quinte del grande palcoscenico della Storia e di stabilire una sorprendente intimità con eventi e figure lontane, spesso leggendarie. Nel giugno 1901, circa due anni dopo la sua morte, una imponente vendita presso Drouot a Parigi mise all’asta ciò che restava di una delle più celebri figlie del secolo che si era appena concluso, Virginia Verasis, nata Oldoini, più nota come la Contessa di Castiglione. Una scia di gioielli, suppellettili e soprattutto documenti segreti e lettere che si dispersero in varie direzioni. Ma la dispersione, anziché cancellare, rese ancora più misteriosa e affascinante la leggenda di questa strana e bellissima creatura, nata a Firenze nel 1837 da una famiglia di nobile lignaggio e incerte fortune da cui presto si sarebbe allontanata sposando, a sedici anni, l’uomo che le avrebbe dato titolo e cognome, rapidamente poi liberandosi anche di lui tra sotterfugi, fughe e tradimenti.
Leggenda che del resto la stessa Virginia aveva cesellato giorno dopo giorno, con una costruzione della propria immagine che non ha nulla da invidiare alle campagne autopromozionali dello star system contemporaneo. Come testimonia del resto il corpus di centinaia di immagini che si fece scattare nello studio fotografico parigino Pierson, tra travestimenti inventivi e pose ardite e sensuali.
Ma chi era veramente, dietro la leggenda, la Castiglione? Certo, fin dai libri di scuola (almeno un tempo) si sapeva che Vittorio Emanuele II e Camillo Benso di Cavour l’avevano mandata in Francia a sedurre l’imperatore Napoleone III per coinvolgerlo, come poi fu, nella seconda guerra d’indipendenza italiana. Ma la contessa, la cui bellezza era pari solo al pessimo carattere, si sarebbe mostruosamente infuriata all’idea di essere trattata come una semplice pedina, molle creta nelle mani di due uomini, banale donna oggetto: perché in ogni circostanza, seppure con alterne fortune, il soggetto, anzi, il demiurgo della sua vita era stata lei stessa, e oggetti, meri strumenti delle sue ambizioni, erano stati gli uomini, pure se si trattava di sovrani potenti come il re sabaudo, che lei chiamava il “Porco Re” (lui nelle lettere a lei si firmava il «Misero Padrone») o l’imperatore dei francesi, da lei rapidamente inquadrato con l’appellativo “Il Vecchio”, che solo a sentirla nominare, le scrisse un amico, «andava in calore».
Ora la enigmatica, violenta, provocatoria personalità di Virginia è raccontata fuori dalla leggenda, con estremo rigore storico ma con straordinaria verve narrativa, nel denso volume che le ha dedicato Benedetta Craveri, La contessa, pubblicato del tutto appropriatamente nella adelphiana “Collana dei casi”, perché spesso la storia di Virginia fa pensare, per la carica di estremismo psicologico, trasgressione e narcisismo, a quella delle protagoniste dei celebri casi clinici raccontati da Sigmund Freud. Alla fine delle quattrocento e oltre pagine che la studiosa le dedica, sicuramente la dama appare come una delle grandi seduttrici che hanno solcato la storia con le imprese della loro bellezza e sensualità, ma allo stesso tempo come una vera monumentale nevrotica. A patto di non dare solo un’accezione negativa a questa definizione, ma di vedervi anche una creatura femminile in conflitto: troppo intelligente per cedere rispettosamente al ruolo sociale previsto, ma senza gli strumenti e le risorse per una vera ribellione.
Craveri non inventa o ipotizza nulla, anzi: il libro è frutto di anni di ricerche negli archivi italiani e francesi alla ricerca di documenti sconosciuti e inediti, ed è centrato soprattutto sul lungo carteggio (le lettere di lei) con il più intimo, il più affine dei suoi tanti amanti, il principe Giuseppe Poniatowski. Per nulla intimidita dal fatto che l’aristocratico, nipote dell’ultimo re di Polonia, fosse stato in passato l’amante di sua madre, Virginia si lega a lui non solo in camera da letto: le duemila pagine di lettere che gli spedisce tra il 1858 e il 1863 sono il lungo soliloquio di una donna che, con franchezza, brutalità e perfino con un turpiloquio che la libera dagli orpelli della mistica della femminilità del tempo, si svela a un individuo affine, il quale con parole non troppo galanti non esita a proporle intrighi e fruttuose seduzioni di potenti.
L’autrice si guarda bene dal fare di Virginia una femminista ante litteram e, ispirata dalla grande prosa dei memorialisti francesi cui ha dedicato tanto studio, la mette in scena in un drammatico chiaroscuro. Tra i difetti (tanti) della contessa spicca la megalomania: non soltanto pensa di essere l’artefice della nascita dello Stato italiano, ma anche di aver contribuito a sedare gli animi tra i Savoia e il papato sulla questione romana, e persino di aver giocato un ruolo decisivo nella guerra franco-prussiana.
Tutte fantasie? Non proprio, dal momento che non agiva solo come ninfa compiacente ma da vero agente segreto nei rapporti con Napoleone, che trattava con il segretario di Stato del papa con grande autorevolezza e che dava consigli al ferreo Bismark su come dovesse comportarsi nella pace con i francesi, mentre agevolava gli affari di Vittorio Emanuele mettendolo in contatto con i suoi amici Rothschild, grazie ai quali lei stessa realizzava audaci speculazioni.
Certo il corpo, il sesso erano i suoi strumenti di lavoro, ma lei aveva le idee chiare in proposito, così come le aveva sul gioco sociale. «Anche se il cuore non conosce regole, il mondo le osserva, e bisogna attenervisi…», scrive al padre. Sebbene poi alle regole si attenesse molto poco, sapendo che era la sua sfrontatezza a rendere irresistibile la sua bellezza. Sempre piuttosto arrabbiata con il suo entourage, che a sentir lei non le riconosceva i meriti – e le rendite – dovuti («E io per il mondo senza casa, senza tetto, senza carrozza…» scriveva ventiduenne a un amico), “Musa della Malinconia”, secondo uno dei suoi adoratori, nelle lettere dichiara orgogliosamente le sue più sostanziali convinzioni: «Tengo molto alla fedeltà del cuore, a quella del corpo niente affatto», per poi ribadire: «Io non credo nell’amore, è una malattia che passa com’è venuta, a poco a poco, o una febbre intermittente…», salvo ammettere negli anni del declino: «amore che è un nulla ed è tutto». Ma su un punto non cambia mai idea: «La cosa che più mi dà gioia al mondo è la mia posizione libera».
Benedetta Craveri non solo disegna alla perfezione la fisionomia di una donna insopportabile e irresistibile ma, grazie ad accurati ritratti di tutte le figure che la circondarono, traccia anche l’affresco appassionante di un Risorgimento privato e turbolento, diviso tra un passato vacillante e un nebuloso futuro, tra disinvolta impudicizia personale e regole pubbliche che la lima del tempo scheggiava inesorabilmente.