la Repubblica, 10 ottobre 2021
Biografia di Tonino Zugarelli raccontata da lui stesso
L’ultimo uomo a quasi settantadue anni è alla sua quinta vita. Nel suo cielo sono passati buio, gloria, depressione, precarietà, infine il sereno. Ha comprato da poco le scarpe nuove, belle e bianchissime, e devono ancora farsi e i piedi dolgono. Ma zoppica anche perché ha le ginocchia distrutte dalle troppe ore trascorse sui campi da tennis. Tonino Zugarelli è stato un campione, passato alla storia come il quarto uomo della squadra che nel 1976 conquistò in Cile, contro Pinochet, l’unica Coppa Davis vinta dall’Italia. Domenico Procacci con la sua Fandango sta producendo una docuserie che racconterà la lunga stagione di quei ragazzi baciati da talenti differenti e complementari, nemici amici, borghesi e operai che per quasi un decennio si rivelarono più forti degli squadroni di Australia e Stati Uniti. Nicola Pietrangeli, che ne fu il capitano li ha descritti così: «Panatta era la diva, Bertolucci la spalla, Barazzutti né buono né cattivo, Zugarelli il capro espiatorio». Uno con il complesso della vittima. Oggi Tonino è direttore della scuola tennis del Foro Italico, spesso incrocia Pietrangeli. «I rapporti sono amichevoli – dice —, ma non dimentico che mi trattò sempre come una riserva».
Eppure lei giocò sull’erba di Wimbledon contro la Gran Bretagna, vincendo entrambi i suoi singolari. Due punti fondamentali senza i quali forse la Davis avrebbe preso un’altra direzione.«Fu Belardinelli a costringere Nicola a mettermi in campo. Litigammo. Ma ormai tutto fa parte del passato. Non ho rimpianti. Ho giocato a tennis per mangiare, per cercare di mantenere la famiglia. Avevo provato sulla mia pelle che cosa significa avere fame».
Suo padre era un immigrato siciliano, faceva il muratore se non sbaglio.«Muratore è una parola che già intende una specializzazione. Papà invece faceva di tutto. Nel primo dopoguerra si cercava di portare a casa pochi soldi in qualsiasi modo. L’aveva costruita abusivamente ai Colli della Farnesina. Una stanza, un cucinino, un piccolo bagno, il tetto di lamiera. Ci stavamo in cinque: mamma, papà, i miei fratelli Carlo e Roberto ed io. Capii presto che in quel quartiere giocavi a calcio o andavi a rubare. Mi sentivo parte di una sottospecie umana. Dopo la grande nevicata del ’56 mio padre montò trappole illegali per catturare passerotti. La sola carne che arrivava in tavola».
Ci provò con il pallone?«Ero bravo, un centravanti veloce che sapeva svariare sull’intero fronte offensivo. Feci un provino con la Roma, il mitico Oronzo Pugliese sulle tribune. Si erano quasi dimenticati di me, mi buttarono dentro negli ultimi trenta secondi. Gioca dove vuoi, mi dissero. Ero incazzato nero, mi lanciano sulla fascia destra, vado via come un missile e metto in mezzo all’area un cross perfetto. E finisce lì. Poi, Pugliese scende dalle gradinate, mi mette una mano sulla spalla e mi fa: ci rivedremo. Infatti mi pigliano e mi spediscono in serie D a farmi le ossa. Tanto sono deluso che smetto. Avevo 17 anni».
Al tennis come ci arriva?
«Per necessità. Facevo, con i miei fratelli, il raccattapalle in due circoli sul Lungotevere. Il tennis era uno sport per ricchi, i pochi che non ci trattavano come servi ci davano piccole mance. Tiravo su 200 o 300 lire al giorno. Quando sui campi non c’era nessuno facevamo due colpi tra di noi, con racchette usate e buttate via, oppure si andava al muro».
Si ricorda il suo primo torneo?
«A 13 anni mio fratello Carlo mi accompagnò al Parioli per un test sul campo, il maestro era Umberto Bartoni. Fui scartato. Cinque anni dopo feci il primo torneo di singolare e arrivai fino in fondo».
Arthur Ashe la cita nella sua autobiografia: “Zuga è uno che sa come maneggiare la racchetta. Uno dei pochi capaci di colpire in demivolée dalla riga di fondo come Pietrangeli e Santana”. Come è riuscito ad essere così sensibile nella tecnica nonostante le manchi l’ultima falange del pollice destro?
«L’ho persa a otto anni. Mi cadde addosso una catasta di pali di legno. All’ospedale i medici avevano fretta. Tagliarono e via. Con l’impugnatura mi sono arrangiato, da autodidatta. Una sera ho preso a mia madre il metro da sarta e mi sono misurato le cicatrici. Un taglio sotto l’occhio destro provocato da un pugno, un altro da fil di ferro sotto il sinistro, in testa uno sfregio causato da una sassata, lungo una coscia la ferita lasciata da un coccio di bottiglia: complessivamente trentacinque centimetri».
Nel 1977 fallì la finale degli Internazionali di Roma, perdendo con l’americano Vitas Gerulatis. L’incontro si decise sul set point del quarto a suo favore, quando lei giocò una volée smorzata che camminò sul nastro della rete per oltre dieci centimetri e ricadde nel suo campo. Che cosa pensò a fine match?
«Due cose. Che se avessi vinto quel quarto set, il quinto sarebbe terminato 6-0 per me, perché Gerulaitis non ne aveva più da spendere. E che Dio mi aveva protetto per sei giorni e abbandonato il settimo».
Lei, dunque, ha fede?
«Sono profondamente religioso, nella mia semplicità. Guardo gli alberi, le montagne, la vita e mi faccio delle domande. Chi ha creato tutto questo se non Dio? Chi, se non Dio, mi ha dato il tennis per consentire di riscattarmi? Non concepisco l’ateismo».
Prega?
«Prego e vado in chiesa tutte le volte che posso».
Lei è stato tra i primi trenta al mondo. Quanto ha guadagnato?
«Qualche milione, una cifra appena sufficiente a comprare una casa fuori Roma, con un mutuo. Ai miei tempi si giocava molto meno di adesso. Roma, Montecarlo, Parigi e naturalmente Wimbledon. I montepremi dei tornei minori erano poco invitanti, le trasferte in America e Australia costavano troppo. La conquista della Davis mi ha fruttato l’equivalente di poco più di duemila euro in gettoni di presenza e un orologio donatomi dopo la finale».
Conserva i suoi trofei?
«Due volte mi sono venuti i ladri in casa e hanno rubato tutto».
Le piace il tennis di oggi?
«Lo studio con scarso interesse. È monocorde. Su trenta giocatori ventotto fanno gli stessi colpi. Ormai si segue il tennis come il cinema, seduti sul divano. I tennisti sono attori, fisicamente programmati, che sembrano impegnati a girare sempre lo stesso film».
È agli sgoccioli il ventennio dominato da Federer, Nadal e Djokovic?
«Le loro imprese sono già in cineteca e nessuno sarà mai più come loro».
Come giudica gli italiani?
«Abbiamo una squadra di Davis molto forte e la vedremo a Torino. Berrettini e Sinner sono campioni, gli altri sono bravi. Spiace, invece, dopo Schiavone, Pennetta, Errani e Vinci, la crisi del nostro tennis femminile».
Quanti bambini frequentano la scuola del Foro Italico?
«Duecentocinquanta, tra i quattro e i quattordici anni. Mi costringono a stare in campo dalle dieci del mattino alle sette di sera».
Insegna il rovescio a una mano?
«Per la carità, sono quasi tutti bimani».
S’immagina una sesta vita?
«Guardi, vorrei fermarmi alla quinta. È un posto in cui sto bene. Lasciatemi in pace, almeno fino a quando qualcuno mi dirà: Tonino, ti sei rincoglionito».