Corriere della Sera, 10 ottobre 2021
Un documentario sulla vita di Strehler
«Sono Giorgio Strehler che vi parla…» Sbuca dal buio, girocollo nero, la celebre chioma azzurrina. Sbuca dal dietro le quinte dei ricordi: «Tra corone, ventagli e spade, costumi d’oro, d’argento e di povera stoffa». Quelli del Campiello e del Lear, del Giardino dei ciliegi e dell’Arlecchino… Spettacoli leggendari, che hanno segnato la storia di un teatro fatto di parole e di attori, specchio «della bellezza e dell’orrore dell’uomo», la cui regola prima è la semplicità. «Siate semplici!» ammonisce il Maestro, rivolgendosi dritto allo spettatore nel documentario Essere Giorgio Strehler prodotto da Didi Gnocchi per 3D Produzioni con Sky Arte che, con Now Tv, lo manderà in onda dal 13 novembre dopo l’anteprima del 23 ottobre alla Festa del Cinema di Roma.
Di Strehler, mago e re del teatro più straordinario, il Piccolo di via Rovello, nato cent’anni fa a Trieste e morto la notte di Natale del ‘97, tanto si è detto e scritto. Quello che però qui ci parla in prima persona è uno Strehler intimo e inusuale. Capace di confessare debolezze e fragilità sorprendenti. «Abbiamo usato interviste inedite, un rarissimo audio, materiali d’archivio, ricostruzioni di scenografie di luci realizzate apposta dai tecnici del Piccolo», racconta Matteo Moneta, che l’ha ideato con Gabriele Raimondo, regia di Simona Risi.
Con il solito piglio fluviale, Strehler qui prende la parola dal primo istante e non la molla più. Rari e discreti gli interventi di personaggi della cultura e dello spettacolo, senza mai interrompere il suo racconto. Missione impossibile del resto, come ben sa chiunque l’abbia incontrato.
Strehler racconta. Di Trieste, di lui bambino che vestiva alla marinara, del padre morto prima che potesse serbarne memoria, della madre violinista in giro per concerti, della nonna francese, del nonno slavo, «alto, bellissimo, con gli occhi azzurri». Un paesaggio infantile che ha per sfondo il mare e un cielo terso di bora, le cui luci cangianti proverà a ricreare nei suoi spettacoli. «Cercava il mare ovunque, anche nella vasca da bagno perché, diceva, è in acqua che vengono le fantasie», ricorda Andrea Jonasson, musa e moglie.
Mare e musica, la colonna sonora dell’infanzia. «In casa avevamo un porcospino chiamato Spiridione – interviene Giorgio -. Di notte, solo nella mia stanza, sentivo le sue zampette andare in giro a caccia di scarafaggi mentre dal fondo del corridoio arrivavano le note del violino della mamma. Due suoni rassicuranti, che sventavano ogni paura». Gli animali gli piacciono, forse più degli esseri umani.
Il suo famoso dispotismo nasconde una timidezza segreta. «Lo ammiravo, ma suo amico no. Impossibile. Una personalità troppo prepotente», avverte Carlo Fontana, al Piccolo per molti anni, collaboratore di Paolo Grassi. E allora, ecco che il suo interlocutore fidato diventa un pappagallo che sa dire una sola parola, «Galileo». «Era saggio e severo, ci volevamo molto bene. Quando è morto è stato un grande dolore», confessa Strehler ancora commosso.
Tra le scoperte emozionanti, una valigetta. «Dentro il suo teatrino ambulante – svela Cristina Battocletti, autrice di un’affascinante biografia, Il ragazzo di Trieste –. Scene in miniatura, personaggi ritagliati nella carta, candele per illuminare. Così quando andava in giro continuava a giocare al teatro».
Il suo unico grande amore. Così forte da escludere il resto. Durante le prove del Giardino..., confida: «Mi sono sdraiato sul pavimento, sotto i fiori di ciliegio di carta, nel giardino immaginario di Cechov, il più bello mai visto». Altre confessioni sbucano dai bigliettini. Pezzetti di carta su cui annotava pensieri, progetti. Nell’elenco delle «Cose da fare»: «Più musica, più Brecht e Goldoni, un figlio». Paternità mancata, un vuoto che gli pesa. «Se fosse stata una figlia l’avremmo chiamata Ombra», racconta Andrea. «Il teatro è mio figlio, nato da un atto d’amore», ribadisce lui orgoglioso.
Gli ultimi anni portano amarezze, tutto è cambiato, la scena e anche Milano. L’ultimo biglietto, scritto a matita, dice: «Come vivere ancora? Senza speranza, senza dimora. E poi, ultima delusione, il teatro». Alla vigilia di Natale, dell’apertura del nuovo Piccolo con l’adorato Mozart, saluta tutti, uno per uno. «Ci vediamo tra un paio di giorni». Non tornerà più.