Tuttolibri, 8 ottobre 2021
GLi ultimi dieci anni di Alessia Gazzola
Nella nota al termine di La ragazza del collegio, il mio nuovo libro della serie dell’Allieva, ho scritto che tornare a raccontare di Alice Allevi, il mio personaggio più conosciuto e di successo, è stato come rimettersi le ciabatte dopo aver portato a lungo i tacchi. Con questo intendo dire che pur avendo sentito il bisogno, in questi anni, di mettermi alla prova e dar voce ad altre storie e caratteri, il senso di familiarità che provo nei confronti di tutto il mondo narrativo della mia detective per caso, specializzanda ormai specialista in Medicina Legale, è unico e impareggiabile. Alice ha compiuto dieci anni: nel mondo dell’editoria è un piccolo grande traguardo. È un personaggio longevo che ancora funziona, e non lo darei per scontato. Certamente non me l’aspettavo nel 2011, quando nelle settimane dopo l’uscita del mio primo romanzo, trovandolo in libreria, provavo un senso di confusione e incertezza: sono davvero una scrittrice, adesso? Ora che sono riuscita a pubblicare il mio libro con un editore importante, ora che il libro è in classifica, sono «arrivata»?
La risposta, naturalmente, era no. Fare il boom è raro e difficile (uno su mille ce la fa, direbbe Gianni Morandi), ma piantar radici nel cuore dei lettori lo è ancora di più. Il nuovo obiettivo, dopo un esordio brillante, era quindi resistere. E questa mia resistenza la devo in gran parte ad Alice. E la libertà di sperimentare nuove strade la devo anche quella ad Alice Allevi. Ho potuto farlo perché lei mi aspettava a casa.
Il ladro gentiluomo, l’ultimo capitolo della serie, è uscito nel 2018 e da allora sembra trascorsa un’eternità. Quattro nuovi libri con tre eroine diverse, due serie tv seguite a una prima di grande successo, un premio importante e di mezzo una pandemia. È evidente che se è vero che già ogni libro è un po’ diverso dal precedente perché anno dopo anno uno scrittore cambia, cresce, si perde, poi torna, La ragazza del collegio mi sembra davvero un altro mondo rispetto al capostipite del 2011, L’allieva. D’altra parte i libri di questa serie seguono la vita di Alice negli anni che sono cruciali per chiunque, quelli dell’evoluzione da giovane studentessa precaria tanto nel lavoro quanto nella vita sentimentale a professionista al termine di un dottorato e impegnata in una relazione importante. Non poteva rimanere uguale a se stessa o sarebbe stata detestabile: ciò che si può accettare con tenerezza e perdonare a una venticinquenne fa storcere il naso se a farlo è una trentaduenne che dovrebbe aver appreso qualcosa durante il tragitto che ha percorso, dai successi come dagli insuccessi. Volevo che in questo romanzo Alice mettesse a fuoco i suoi obiettivi, come donna e professionista. Mi rendo conto che è una sfida, perché L’allieva è un format già a partire dal titolo, al cui centro ci sono l’apprendimento, il divenire, la condizione di discente insomma, cui è intrinseco un certo numero di sbagli. E per la mia esperienza sono proprio i suoi sbagli, le sue imperfezioni, a rendere vivo un personaggio, a far sì che un lettore gli si affezioni. Alice non è più un’allieva e non vive più relazioni precarie. Come portare a casa un buon romanzo rimodellando i pilastri che ne hanno garantito la stabilità e il successo? Sì, la genuinità dell’ispirazione è condicio sine qua non – e io ho aspettato pazientemente la storia giusta e il momento giusto. Ma per tutto il resto?
Ho pensato che questo romanzo dovesse quindi servire a riannodare alcuni fili rimasti sospesi nei precedenti. Qualche esempio: Alice fa il medico legale ma si cimenta in indagini che non le competono – forse è arrivato il momento di chiedersi cosa fare della propria carriera; la maternità, che nello scorso romanzo era un capitolo doloroso e traumatico – forse è il momento di curare quella ferita che volutamente lei continuava a stuzzicare, come quando grattiamo via una crosticina e impediamo la guarigione. E poi, naturalmente, ci sono i morti. Per un medico legale la morte è pane quotidiano e mi risulta sempre un po’ paradossale che i miei romanzi, che considero delle commedie, girino intorno a indagini in cui, anche se per finta, un personaggio è morto. Un personaggio cui affibbio caratteristiche precise e cui finisco con l’affezionarmi – verso metà libro in genere inizio a formulare la malsana ipotesi di ricominciare da capo e non farlo morire perché mi sembra un destino troppo triste e ingiusto. Così è stato anche con Francesca, la ragazza del titolo, una ventitreenne piena di entusiasmo, ideali e passioni che viene travolta da un’auto pirata nei pressi del prestigioso collegio in cui risiedeva. Sopralluogo e autopsia sono affidati ad Alice, appena rientrata in Italia dopo due anni trascorsi a Washington; nel frattempo le indagini portano a chiarire che non è stato un incidente, ma che c’è stata piuttosto chiaramente la volontà di uccidere, l’animus necandi, per usare un termine caro ai penalisti. Come d’abitudine, Alice si mette sulle tracce di chi era in vita Francesca con i suoi escamotage da investigatrice dilettante: i social in primo luogo, finendo con il trovarsi – mai per caso – negli stessi luoghi popolati dagli affetti della ragazza del collegio. La band che amava ascoltare nei locali del Pigneto con quel bel frontman che sembra proprio avere qualcosa da nascondere, la sua amica dalla lunga treccia scura che ha promosso una fiaccolata per ricordarla, la sorella Valeria, giovane chirurgo che a sua volta qualcosa lo nasconde di certo. Ma tutto si complica quando si manifesta un altro caso di cui occuparsi, piuttosto eccezionale perché stavolta, se non altro, non è morto qualcuno. C’è un bambino misterioso di cui stabilire l’età. Nessuno sa da dove venga, dove siano i suoi genitori: il piccolo non sembra in grado di parlare. E Alice, che gioca a nascondino con il figlio che desidera intensamente, non può non sentirsi coinvolta da Emi, il trovatello silenzioso che ha negli occhi una saggezza senza tempo. Una doppia indagine, quindi, che è sempre anche un’indagine emotiva: analizzare i sentimenti degli altri per capire qualcosa in più sui propri. È sempre stato questo, il trucchetto alla base del binario giallo-rosa, che sono le mie due tinte preferite. Talvolta prediligo l’una, talvolta l’altra, più spesso le mischio in una tonalità ibrida che è quella di mio gradimento.
Alla me stessa di dieci anni fa che si chiedeva se era una scrittrice o no, oggi risponderei di sì. Sia perché ho fatto un passo estremo che all’epoca avrei creduto inimmaginabile, e cioè lasciare la medicina a favore di una carriera editoriale – quindi di fatto io vivo della mia scrittura. Sia perché posso dire a me stessa che dieci anni dopo sono ancora qui, con una mia identità di scrittrice che può essere gradita o no, ma è tutta mia. Il prossimo obiettivo? Resistere ancora, ovviamente! —