la Repubblica, 9 ottobre 2021
Intervista a Pedro Almodóvar
Tutto sul giovane Almodóvar. Come in Madres paralelas (Coppa Volpi a Penelope Cruz alla Mostra di Venezia, in sala il 28 con Warner) la vita e il dna di due madri si intrecciano alla genetica di un Paese incapace di chiudere le ferite dei desaparecidos e della guerra civile, così l’esistenza e la creatività del regista sono corse in parallelo con la storia spagnola. Nell’intervista Almodóvar, 72 anni, rievoca i demoni del franchismo, la nascita della movida spagnola e del suo cinema.
È cresciuto sotto il franchismo.
«Dai salesiani, dai 10 ai 14 anni. Un incubo. Il terrore aleggiava sotto quel tetto, decine di bimbi abusati.
Avevamo tutti paura di essere aggrediti nei corridoi. Una qualità di studio pessima. I docenti non avevano alcuna qualifica pedagogica. Dai francescani, dai 15 anni, tutto fu meno turbolento. Ma c’era l’indottrinamento politico, la formazione dello spirito nazionale, la storia piegata al potere da parte dall’insegnante falangista. Per fortuna a 18 anni sono andato a Madrid e i fantasmi sono spariti».
“Madres paralelas” affronta il tema dei desaparecidos.
«Nel passaggio della Spagna alla democrazia, la sinistra tornata al potere per ragioni pragmatiche mise da parte molte questioni sospese: tra queste, i desaparecidos, condannati all’inesistenza durante la guerra e la dittatura e poi di nuovo vittime con la legge sull’amnistia. Ero giovane, molto più tardi ho capito. Non ho perso familiari ma mi commuovono gli anziani in tv, il dolore e l’illusione di ritrovare le ossa degli amati, restituire la dignità che merita chi ha lottato per la democrazia. Da anni pensavo a un film, l’ho fatto con questa donna e il suo bisnonno».
Com’era la vita sotto il regime?
«Un’atmosfera di quotidiano e palpabile terrore. La paura di incrociare qualcuno delle forze dell’ordine in strada».
E a Madrid?
«Nei primi anni c’era ancora Franco ma si respirava un’aria più libera rispetto al resto del Paese. I giovani erano hippie. Mi sono fatto crescere i capelli, ne ho abbracciato l’estetica: perline, abiti, amore libero. Ho comprato la prima Super8 e iniziato a fare film. Franco aveva chiuso la scuola di cinema, le lezioni erano i film che facevo nei weekend con gli amici, c’erano già temi che poi avrei sviluppato. Giravamo La caduta di Sodoma, Lot, sua moglie e tutto il popolo sodomita che voleva acchiappare gli angeli per scoparli. Il set in campagna fuori Madrid per usare la luce naturale e non farci arrestare, i sodomiti vestiti con gli abiti di madri e sorelle. Una cosa divertente, barocca, segretissima».
Poi è finita l’era di Franco.
«Il popolo spagnolo si preparava alla sua morte, le famiglie avevano una bottiglia di champagne in attesa: ne stapparono a milioni. Nel ’77 inizia il movimento spontaneo che per il mondo è la movida. Sull’onda del punk e della New Wave londinese Madrid diventa la città più libera, la notte è infinita e senza pericoli, una ragazza poteva camminare alle tre senza rischi. Era come se Franco non fosse mai esistito, la vendetta era negare la sua esistenza e la dittatura.
Ma io non ho mai dimenticato, perché se nei weekend giravo i Super8, in settimana lavoravo presso la società telefonica e lì è nata la mia coscienza di classe: gli scioperi, le lotte della sinistra continuate poi con l’appoggio alle battaglie politiche».
Il suo è un cinema politico.
«Tutti i personaggi femminili dei miei film, nonne, suore, casalinghe godono di una assoluta autonomia morale: questa è una affermazione politica. E i primi film, che sembrano più pop e meno politici, hanno l’intento di dare libertà e visibilità a quei gruppi ai margini della società spagnola per genere, sessualità, droghe».
Chi era il Pedro di allora?
«Sono felice di ciò che sono stato e di ciò ho fatto, malgrado i rischi. Molti amici sono morti, in quella vita vertiginosa, perché tra le libertà scoperte c’erano le droghe. La mia precoce vocazione per il cinema mi ha dato una disciplina enorme. Ero il primo ad andare a dormire. Non sono stato un santo ma non ho mai preso l’eroina, vedendone gli effetti immediati capivo che non era per me. La cocaina mi dava vitalità, parlatina, socialità. L’eroina è stata il Vietnam della mia generazione.
Guardavamo a David Bowie e Lou Reed, stupendi e tossici. Non si conoscevano i danni delle droghe».
Il suo rapporto con i critici?
«Furono scioccati dai primi film, audaci e naturali, sembravano venire dalla vita stessa. Per i primi quattro anni mi disprezzarono. Hanno iniziato a prendermi sul serio con Che ho fatto io per meritare questo?
perché c’era una coscienza sociale, le mie radici, la lotta per il successo a Madrid. Da allora le polemiche hanno accompagnato i miei film, a parte gli ultimi. Negli 80 e 90 i critici si sono divisi tra entusiasmo e disprezzo. Con il successo mondiale si è creato qualcosa di molto spagnolo: una tremenda invidia. Ci convivo. In Francia sono grati ai loro idoli, in Spagna non ti perdonano il successo. Nessuna stella da noi avrebbe il riconoscimento che avete dato a Raffaella Carrà, i suoi funerali da capo di Stato sarebbero inconcepibili. Ma la Spagna è anche il luogo in cui ho potuto lavorare con totale indipendenza. Se avessi ceduto alle tentazioni di Hollywood, avrei perso la libertà».