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 2021  ottobre 09 Sabato calendario

Il libro che raccoglie tutte le intervista a Bob Dylan

Sessant’anni di canzoni, dischi e concerti. Una carriera interminabile, come il suo Never Ending Tour, una serie di concerti e soirée cominciata trentacinque anni fa, e ancora in corso. Forse soltanto Maurice Chevalier, estroverso quanto lui è musone, simpatico quanto lui no, è stato altrettanto a lungo sulla breccia, illuminato dai riflettori di scena.

Anzi, più che sulla breccia, Bob Dylan è stato per sessanta elettrizzanti anni sul fronte del pop, a combattere la guerra delle guerre, quella contro l’oblio, la cui posta è l’eterna giovinezza, come in quella vecchia canzone: «May you stay forever young / Forever young, forever young / May you stay forever young». Sono stati anni travagliati, segnati da scivoloni e risalite, conversioni e apostasie, matrimoni e divorzi e ancora matrimoni, Premi Oscar e Premi Nobel, dischi geniali e dischi così così, quando non addirittura pessimi, o stridenti.
A raccontare tutta la storia, un’era geologica dopo l’altra, sono le interviste raccolte da Jeff Burger in questo magnifico libro: Like a Rolling Stones. Interviste. Bob Dylan, che risponde raramente alle domande sstupide, ignora completamente quelle che riguardano la sua vita privata, o le sue opinioni riguardo il corso presente e futuro del mondo. Naturalmente sono proprio le domande che i gazzettieri gli pongono più spesso. Da giovane, Dylan rispondeva beffeggiando e umiliando i rompiballe. Con l’età ha imparato la tolleranza. Ma la risposta alle domande sciocche e personali è sempre rimasta la stessa: nessuna. Jeff Burger raccoglie le interviste che vale la pena leggere.
All’inizio, è il 1961, c’è questo ragazzino ebreo del Minnesota che canta eccezionali canzoni folk nei locali hipster di McDougall Street, nel Village di New York: camicia a scacchi, un cappelluccio in testa, una grande opinione di sé, le sue canzoni sono così straordinarie che, quando lascia il campo, passando dalla chitarra acustica a quella elettrica, dal canzoniere engagé al rock’n’roll, del folk non resta più traccia: andato lui, è andato il folk. Incide la sua prima grande canzone rock, Like a Rolling Stone, e anche il rock cambia per sempre. Sono gli anni Sessanta, e da guru della gioventù democratica, dei trotzkisti, della sinistra impegnata nel movimento per i diritti civili, Dylan si trasforma d’emblée nella bandiera dell’underground, dei tossici, degli scoppiati. Sono identità pesanti da portare, e per di più gli vanno strette. Gli chiedono se si sente il portavoce e la guida spirituale della sua generazione e lui risponde: «No, sono solo uno che canta e balla».

Dylan canta, balla, e il suo trip sono le canzonette, uniche e originarie finché si vuole, bellissime, ma pur sempre canzonette. Dylan non ha per modelli il Mahatma Gandhi o Allen Ginsberg ma Elvis Presley e Frank Sinatra. Gli piacciono i bluesmen neri del Mississippi e le cover delle sue canzoni (I Shall Be Released, Just Like a Woman, Love Minus Zero/No Limit) incise dal poppetaro Ricky Nelson. Di fare da megafaono del partito universale della gioventù ribalda non ha proprio voglia né intenzione. Già nel 1965, alla domanda d’un giornalista che vuol sapere cosa ne sia stato del vecchio Dylan in look protestatario, risponde tranquillo: «Ora c’è un sacco di gente che scrive canzoni di protesta, ma la cosa ha preso un taglio strano. Insomma, preferisco ascoltare Jimmy Reed, o Howlin’ Wolf, capisci, o i Beatles, o Françoise Hardy, piuttosto che uno di quelli che cantano canzoni di protesta… anche se naturalmente non li ho sentiti tutti. Ma quelli che ho sentito… sono tutti caratterizzati da una certa vacuità, amico».

Per qualche anno si defila: niente concerti e la famiglia in primis, tantò più che l’atmosfera, alla fine dei sixties, comincia a guastarsi, come racconta anche Quentin Tarantino in C’era una volta a Hollywood: gli hippies invasati della Manson Family, le droghe, i terroristi che s’autobattezzano «Weathermen» da un verso di Subterranean Homesick Blues, un hit dylaniano del 1965: «You don’t need a weatherman to know which way the wind’ blows». Ricompare, divorziato, in look tra il menestrello e il clown, la faccia pittata di bianco, per il Rolling Revue Thunder del 1965: il tour che lo riporta al centro della scena. Con lui, in questo lungo e carnevalesco viaggio attraverso gli Stati Uniti del Bicentenario, ci sono Joan Baez, Sam Shepard, Ramblin’ Jack Elliott, Roger McGuinn dei Byrds, Joni Mitchell, il giornalista di Rolling Stone Larry «Ratso» Sloman: tutto un cast di vecchi e nuovi amici, che s’uniscono alla carovana, la lasciano, rientrano, la lasciano di nuovo. Dylan ne ricava un film, Renaldo and Clara, che dura ben cinque ore e che, se non è il peggior film della storia del cinema, poco ci manca. Ebreo, passa al cristianesimo, e ci fa su un paio di dischi; più tardi, con un ambarabàciccìcoccò teologico, torna alla fede originaria (o forse a nessuna, non è ben chiaro).

Negli anni Ottanta, tramontata l’età dei boomers, che con le loro controculture e predicazioni s’erano illusi di poter cambiare il mondo, gli si appanna un po’ l’immagine. Come il folk nei primi sessanta, anche il rock’n’roll, nell’età di Mtv, della disco music e delle discoteche, ha fatto il suo tempo. Dylan continua a cantare e ballare, anche se per un momento pensa di gettare la spugna, al diavolo tutto, ma fortunatamente ci ripensa, salute a noi.
Nel 1993, quasi trent’anni fa, il jet set musicale europeo e americano celebra con un concerto al Madison Square Garden di New York i suoi primi trent’anni di carriera. Ne viene fuori, insieme a una rentrée trionfale, anche uno straordinario doppio LP di cover dylaniane: Stevie Wonder canta Blowin’ in the Wind, Eddie Vedder Masters of Wars, Kris Kristofferson I’ll Be Your Baby Tonight, Richie Havens Just Like a Woman, Lou Reed Foot of Pride e Ronnie Wood, dei Rolling Stones, un’eccezionale versione di Seven Days.
Passa anche lui a incidere cover (una vecchia passione). Negli anni inciderà dischi dedicati a Sinatra, al blues classico, alle canzoni di Natale. È Bob Dylan, il re del rock’n’roll, il Premio Nobel per la poesia, ma non è soltanto un Rimbaud reincarnato in terra americana. È anche Bing Crosby, anche un crooner à la Dean Martin, cioè un artista americano ad ampio raggio. Poeta e ballerino, capace di straordinarie performance e di grotteschi scivoloni, vecchio e giovane allo stesso tempo, non ci sarà mai più uno come lui.
Bob Dylan, Like a Rolling Stone. Interviste, il Saggiatore 2021, pp. 592, 25,00 euro, eBook 11,99 euro