Il Messaggero, 8 ottobre 2021
Intervista a Marco Glaviano
Un gioco da ragazzino catturare la meraviglia del mondo con una Leica, la prima macchina fotografica maneggiata da Marco Glaviano nella sua intensa carriera decollata negli Anni Settanta. A Palermo, il fotografo classe 1942 cresce circondato dall’arte – suo zio è il pittore futurista Gino Severini – studia architettura, lavora come scenografo in teatro e suona il jazz. Inseguendo il sogno di una vita da artista viaggia a Roma e Milano, atterrando poi a New York dove prende casa e studio (rientrando in Italia solo tre anni fa) giusto in tempo per fare la rivoluzione. Lo Studio 54, Andy Warhol, la Pop Art, gli indicano un nuovo modo di guardare il mondo e la moda.
Contribuisce a creare la leggenda delle supermodel Cindy Crawford, Paulina Porizkova ed Eva Herzigova su Vogue e Harper’s Bazaar. Correvano gli anni Ottanta, da allora più di 500 cover ed editoriali hanno trovato posto nel suo sconfinato archivio, dove le modelle posano accanto a jazzisti leggendari come Chet Baker e ai paesaggi della sua Palermo perché anche i paesaggi hanno una personalità. C’è tutta la sua vita nella mostra A life of Photoshoots che il 13 ottobre aprirà alla Galleria Deodato Arte di Milano: insieme alle immagini Icons, realizzate con le modelle dal 1984 al 2011, un centinaio di polaroid che mostrano il dietro le quinte della moda, ben prima dei selfie.
Qual è il valore aggiunto delle polaroid?
«Sono quelle che si facevano sul set prima di scattare le foto per un controllo tecnico. In questo momento sono diventate importantissime: la prima reazione di chi vede una foto di una bella donna è ma è Photoshop!. La polaroid non mente, è un pezzo unico e oggi tantissimi fotografi le scelgono perché ci liberano da questo pregiudizio per cui è tutto finto».
La bellezza è invece qualcosa di tangibile, reale?
«La bellezza viene da dentro, è negli occhi e si vede in foto più che al cinema: se il soggetto non ha un’anima non c’è niente da fare. Non è questione di rughe e di età, la bellezza apparente non serve a niente».
Come è approdato alla fotografia di moda?
«Per sbaglio. Era un momento magico per la fotografia di moda: sull’onda del film Blow Up di Michelangelo Antonioni sembrava che tutti volessero fare i fotografi. Dico sempre che non sono mai stato un vero fotografo di moda, nel senso che ho sempre pensato alla persona che indossava il vestito, piuttosto che all’abito, dando spazio anche ai paesaggi. Ho lavorato molto con Giorgio Armani di cui amo il coraggio e la forza, è una macchina da guerra nel lavoro, oltre che un mio amico storico. Gianni Versace lo ricordo come un uomo dolce e un grande artista».
Tra le sue super modelle Cindy Crawford, quale la sua forza?
«Con lei ho ancora oggi un bellissimo rapporto, c’era grande complicità sul set. Con John Casablancas, il fondatore dell’agenzia Elite Model Management, abbiamo inventato negli Ottanta il fenomeno delle Supermodel, erano donne per certi versi di una bellezza aliena e senza alcun fotoritocco. La Crawford davanti all’obiettivo aveva il potere raro di cambiarti l’immagine».
A Kate Moss ha detto di no, invece?
«È vero ed è stato un mio errore, perché poi ha avuto una sua carriera. Ma non riuscivo a ritrarla, era molto distante dalle modelle con cui avevo lavorato fino ad allora. Un’altra donna che non ho voluto fotografare è Madonna, rispondevo no, perché non mi piace come canta. Del resto come dico sempre è necessaria la sintonia con i soggetti, la metà delle mie foto l’hanno fatta le modelle».
Per l’altra metà, lei cosa ci ha messo di suo?
«L’improvvisazione che mi arriva anche dal jazz, affiancata da molto lavoro. Mai trascurare la tecnica, sono stato il primo a usare il digitale, ma dico sempre di non farsi usare dalla tecnologia, se ti prende la mano è finita, non c’è più l’artista dietro l’immagine. I miei scatti di nudo nascono anche perché in casa ho sempre visto i quadri di Renato Guttuso, vedere donne nude per me era la normalità».
Oggi che è tornato a vivere in Italia, come guarda alla fotografia di moda?
«Rischia di non esistere più, se invece che sui giornali di moda viene pubblicata sullo schermo dei telefonini. Non si percepisce lo sforzo fatto per realizzare un’immagine artistica. Il cambiamento è molto negativo».
La foto che lei scatterebbe domani?
«Credo di averla già fatta».