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 2021  ottobre 08 Venerdì calendario

Nel libro della Boccassini anche le pressioni di De Gennaro per non accusare Berlusconi

«Dall’inizio alla fine sono stata una figura ingombrante per la mia categoria, per la politica e per quei cittadini che mi vedevano come un demonio o come un angelo vendicatore. Ovviamente non sono mai stata né l’uno né l’altro, ma questo è il destino di “Ilda la Rossa” ed è arrivato il momento di accettarlo con serenità, di elaborarlo come si fa con i traumi e le ferite che guariscono, ma lasciano in ricordo una cicatrice permanente». “La stanza numero 30” ha visto passare quattro decenni di indagini, in cui la vita di Ilda Boccassini si è intrecciata alla storia d’Italia. Li ripercorre in 365 pagine edite da Feltrinelli tenendo fede a questa fama di magistrata dura e pura. In tutto il libro c’è un maestro e punto di riferimento: Giovanni Falcone, a cui l’ha legata un amore stroncato dalla strage di Capaci che per la prima volta riesce a raccontare. E la memoria di Falcone la spinge ad essere ancora più severa nel ritratto della deriva di istituzioni e magistratura. Con la rivelazione di episodi, tanto importanti quanto per lei dolorosi.
10 novembre 2000. Gianni De Gennaro la chiama a Roma. Tra loro c’è stato «un rapporto intenso: gli volevo bene, lo stimavo». Ma quel giorno si trova davanti una persona diversa: «Senza preamboli e con il suo tono ruvido, il capo della polizia mi chiese cosa stessi “combinando a Milano”, aggiungendo che in tutti quei mesi aveva faticato a tenere a bada Berlusconi e i suoi, che si era speso per “evitarmi il peggio”. Rimasi sbalordita, spiazzata da quel discorso così diretto che nemmeno mi venne in mente di collegare quella rampogna alla contestazione suppletiva (proprio contro Berlusconi ndr ) che avrei depositato pochi giorni dopo al processo Sme-Toghe sporche. Invece era proprio quella scadenza imminente – anzi, il tentativo di neutralizzarla – che rendeva De Gennaro tanto aggressivo». Boccassini se ne va sbattendo la porta.
In altri capitoli contesta «i cattivi maestri, capaci solo di infiammare le coscienze dei giovani con messaggi falsi e fuorvianti, discorsi piagnucolosi sulla fatica di vivere scortati». Dedica un cameo ruvido a Nicola Gratteri, «che creava tensione con il suo vantarsi di una conoscenza della ’ndrangheta talmente approfondita e a suo dire unica da ricavarne bizzarramente (poiché era il solo a esserne convinto) un senso di superiorità nei nostri confronti». Critica Antonio Ingroia e Nino Di Matteo per le scelte investigative e gli errori sulla Trattativa. E di Roberto Scarpinato scrive: «Non ho mai apprezzato il suo stile da narciso siciliano perfettamente rappresentato dalla sua acconciatura alla D’Artagnan».
Molto negativo il giudizio sul procuratore di Milano Francesco Greco, un altro amico da cui si è sentita tradita. «La situazione in cui mi trovavo si faceva ogni giorno più incresciosa, ma non volevo lamentarmene con i colleghi. Ne parlavo soltanto con Paolo Storari, pur sapendo che molti altri magistrati erano indignati per il prolungarsi delle non-scelte di Greco. I mesi trascorrevano lenti, mentre cominciava a prendere forma il progetto organizzativo del nuovo procuratore, tanto favorevolmente accolto dai membri della commissione che ne aveva deciso la nomina, a cominciare da Paola Balducci, convinta sostenitrice di Greco, oltre che indiscussa rappresentante della logica spartitoria, come sarebbe emerso dalle chat di Luca Palamara». Valutazioni destinate ad avere un riflesso nelle indagini sul caso Amara, che hanno spezzato la procura di Milano, mettendo Greco e Storari l’uno contro l’altro. E prosegue: «Quanto alla vicenda che, a partire dal cellulare di Palamara, ha terremotato il Csm, il dato sconfortante che emerge, oggi ancora più che in passato, è la ricerca spasmodica di fette di potere da parte di troppi magistrati, la svendita della propria funzione per pochi spiccioli, un regalo, un favore, una poltrona per sé, una spintarella per un parente». Boccassini è spietata verso il Csm, l’Associazione magistrati e le correnti, diventate volano di un sistema contaminato. «Sono ancora troppi i comportamenti opachi, forse non penalmente rilevabili, ma senza dubbio deontologicamente censurabili. Se Cosa nostra in Sicilia ha potuto vivere e prosperare per decenni, lo si deve anche – non solo, ovviamente, ma anche – all’inerzia di una magistratura pigra, pavida, in alcuni casi collusa. E se la corruzione ha potuto minare le fondamenta dello Stato, lo si deve anche a pezzi di magistratura che hanno volutamente distolto lo sguardo, oppure non hanno capito o si sono lasciati corrompere».
Boccassini sa che la sua ostinazione le ha stroncato la carriera – è andata in pensione come semplice pm – e le ha complicato la vita. E alla fine si riconosce nella definizione di “Maria Goretti in Fantozzi": «Mix di coerenza da martirio e di frustrazioni al limite della comicità». Ma chiude il libro con un appello che riecheggia quello di un altro dei suoi maestri, Francesco Saverio Borrelli: «Resistere alle lusinghe del potere, respingerne gli attacchi, rinunciare al carrierismo è una strada possibile. Sono convinta che le giovani donne magistrato del futuro potrebbero fare la differenza se sapranno smarcarsi dai falsi miti e dai cattivi maestri. Certo, noi donne siamo tutte un po’ Fantozzi e un po’ Maria Goretti, ma siamo anche capaci di volare alto, fino a conquistare il cielo».