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 2021  ottobre 07 Giovedì calendario

Sull’autobiografia della Boccassini

Roberto Saviano per il Corriere della Sera
S e questo libro avesse potuto esser scritto con il sangue, le lacrime, la saliva, le unghie, ciocche di capelli, brandelli di vestiti, vetri d’auto blindata, forchette, ebbene sarebbe stato scritto con ogni singolo elemento di questo elenco. Ilda Boccassini ha messo tutto, potrei dire che su queste pagine si è spogliata d’ogni cosa, nuda. Dovrei scegliere un termine più preciso: scorticata, perché va oltre la pelle, affronta tutto, l’osceno mondo del potere, il tenero spazio delle alleanze, il romantico slancio degli ideali.Questo libro è il racconto di una donna magistrato, che non si è mai sentita davvero comoda nel suo ruolo in una Repubblica malata, ferita, e che nei momenti di maggior tensione, così come in quelli di formazione, sempre è stata un’irregolare. Certo, essendo un mondo di quasi tutti uomini si potrebbe pensare a una questione di genere, ma sarebbe riduttivo. Ben presto si accorge che lo spazio del diritto, che lei con ogni forza ha voluto occupare, quasi mai coincide davvero con lo spazio dei tribunali, delle Procure, delle sentenze. Questo toccante mémoire si apre e termina accanto a una Ilda intenta a rimettere a posto le sue stanze piene di lettere e i suoi ricordi. Mette a posto le carte, Ilda, e prova a far ordine dentro di sé. Il primo, fatale incontro, con le pile di carta tra le quali gioca, bambina, nello studio del padre magistrato, lì dove tante volte le capiteranno tra le mani fotografie di omicidi che le turberanno il sonno e le orienteranno l’esistenza. La bambina cresce, diventa una donna, «Ilda la rossa» che non risparmia nessuno, nemmeno se stessa. Davanti alla professione, è di un rigore inscalfibile, lei che, come la pianta di agave a cui è stata paragonata una volta in un articolo, resiste caparbia nelle condizioni più ostili. Sì, perché questa dedizione totale alla giustizia, se fosse stata sfoggiata da un uomo gli sarebbe valsa riconoscimenti e apprezzamenti, ma portata da lei si trasforma in condanna sociale, delegittimazione, motivo di biasimo e attacchi personali. La prima di una sterminata serie di volte in cui si scontra con questa realtà misogina, la seguiamo, giovanissima, in un’aula di tribunale in veste di uditrice: un collega si presenta sempre armato e lei e un’amica, per prendere in giro questo gratuito sfoggio di machismo, un giorno portano con sé delle pistole ad acqua colorate. Inutile dire su chi si siano riversate le ire dei più anziani.
Il centro narrativo, che tracima di felicità e dolore al contempo, è l’incontro con Giovanni Falcone, per Ilda un mentore, un riferimento umano e professionale. Tanto che, scrive, il 23 maggio 1992 sarà per lei «il giorno in cui tutto finisce e tutto comincia». Da Falcone eredita il metodo di indagine, la prudenza investigativa, l’uso mediatico delle proprie dichiarazioni, che non devono mai impattare sulla sua credibilità, nemmeno per andare in cerca di un consenso troppo spesso usato per sopperire a mancanza di prove o di capacità di indagine. Cita le sue parole in Cose di Cosa nostra (1991): «Oltre ad avermi insegnato una lingua e una chiave di interpretazione, Buscetta mi ha posto di fronte a un problema decisivo. Mi ha fatto comprendere che lo Stato non è ancora all’altezza per fronteggiare un fenomeno di tale ampiezza (…) e ha aggiunto: “L’avverto, dopo questo interrogatorio diventerà una celebrità ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Il conto aperto con Cosa nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?”». Eccolo qui, il coraggio, che non è il lanciarsi nell’ignoto o il rischiare, tutt’altro, è il dover raccogliere su di sé una scelta. È quello che fa Ilda quando sceglie il trasferimento in Sicilia, sulle tracce dei responsabili della morte di Giovanni. Non si accontenta di sapere chi ha materialmente fatto cosa: lei vuole tutti, punta ai mandanti. Ma il suo modo di scandagliare i fatti, andando oltre la superficie, rischiarando le «zone grigie» dove sfumano i contorni tra mafia e potere, bene e male, risulta scomodo in un’Italia che si trincera dietro l’illusione che esistano solo il bianco e il nero, gli eroi e i nemici.
La scorta negata
Provarono davvero ad atterrarla: come spiegare il periodo delle indagini antimafia senza scorta?
Ilda Boccassini ne incontra tanti, di colleghi che «accettano di sponsorizzarsi come si fa con una batteria di pentole», di giornalisti asserviti e senza etica, di parlamentari che fanno gli interessi unicamente dei propri demoni, e li chiama tutti per nome, attirandosi addosso un arsenale pesantissimo che ha munizioni legali e mediatiche capaci di atterrare chiunque. Come se scegliere di stare dalla parte di chi non accetta a capo chino ingiustizia e corruzione significhi rinunciare alla propria vita privata, Ilda si ritrova più volte a fare i conti con un’enorme lente d’ingrandimento perennemente puntata addosso, pronta a mettere in evidenza qualsiasi imperfezione e a deformare ogni suo spostamento. Ci provano davvero, ad atterrarla, e non solo metaforicamente: come spiegare altrimenti il periodo in cui, con le indagini che porta avanti nell’Antimafia, le viene negata la scorta?
Ilda Boccassini sceglie di rivelarsi, pur nella consapevolezza che ancora una volta ci sarà chi andrà ad attaccarla dove trova nervi scoperti. Nervi che pulsano del senso di colpa all’idea di non aver dedicato abbastanza tempo ai figli, ma anche della pace che prova quando sente che il loro legame è più forte.
Scegliere costa, su questo è molto chiara. Costa alla madre che accompagna la crescita dei figli filtrata da una cornetta del telefono e salvificamente mediata da una comunità di donne, le mamme dei compagni di classe dei suoi bambini, che fanno rete per sostenerla, nella gestione dei figli come nelle sue stesse emozioni. Costa alla donna che tanto spesso si è sentita sola. La sua è «una scelta quotidiana, sofferta, lacerante», davanti alla quale non si tira mai indietro, nella convinzione che «difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non è una battaglia persa» e che il passaggio di testimone alle giovani professioniste di oggi avviene in un momento in cui è di nuovo possibile sperare che le cose cambino. Perché a nessuna potenziale Ilda di domani venga mai più preclusa la prospettiva di fare carriera perché «sei brava, ma sei Ilda». Leggerete la storia di Ilda, ma vi troverete nel cuore pulsante della storia della nostra democrazia, quella che avrebbe potuto essere, quella in cui forse è ancora lecito sperare.



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Natalia Aspesi per La Repubblica
Ritrovarsi pensionata, nonna a tempo pieno come sono certe nonne di oggi, ex cardiochirurghe o esperte di big data, o come lei, magistrata, è una bizzarria, una fatica, una limitazione, un rifugio? O invece una scoperta, una vita nuova da assaporare, una serenità mai provata? Martino 4 anni, Sebastiano 2, figli di Alice, e Giona, pochi mesi, figlio di Antonio, hanno questa nonna speciale che sta vivendo lo stupore e la passione di chi forse si è spesso sentita con angoscia una madre assente, colpevole, perché in lei prevaleva la passione per le istituzioni, l’orgoglio della sua toga, e bisognava partire, stare lontano settimane, mesi, ed Alice piangeva e Antonio ammutoliva e il suo compagno di allora cercava invano di trattenerla. Nonna Ilda, Ilda la Rossa, Ilda Boccassini, ha ancora quell’espressione chiusa, quasi allarmata dei tempi grevi delle sue battaglie, e come allora i suoi capelli sono rosso fiamma, però non più a lucenti riccioli ma tagliati molto corti, e ancora sul nero del suo abbigliamento porta gli immancabili gioielli, una collana e un bracciale di fili di perle fermati dai cammei ereditati dalla nonna, e naturalmente gli orecchini, anche quelli di perle.La stanza numero 30, cronachedi una vita, 336 pagine dedicate ai due figli e ai tre nipoti, è molto più della sua vita, è la vita drammatica di quarant’anni d’Italia, anni spaventosi oggi dimenticati o superati da altre tragedie. La stanza numero 30 al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano le fu assegnata quando molto giovane arrivò con altri nuovi uditori, in tutto nove di cui ben sei donne, il che infastidì subito il capo della procura, l’anziano Mario Gresti; e il Corriere della Sera citò il suo scontento, «Il lavoro di inquirente poco si adatta alle donne, specialmente se alle prime armi. Maternità, preoccupazioni famigliari soprattutto per quanto riguarda i figli…». Boccassini è cresciuta in una Napoli simile a quella raccontata da Elena Ferrante, si è laureata nel 1972 già sposata e col pancione, impreparata ad essere madre, la madre di Antonio che aveva già sette anni quando arrivarono a Milano. Era il 1979, le donne da anni occupavano le piazze, il femminismo e la sinistra avevano imposto nuove leggi di libertà e civiltà, ma certi maschilismi sono duri a morire ancora oggi. L’essere donna ha segnato la carriera di Ilda come di tutte le donne che sono uscite dal ruolo domestico con uno slancio nuovo che spesso non si adatta alle regole già stabilite. Quando da Caltanissetta le chiesero di unirsi al pool che avrebbe indagato sulle stragi di Capaci e via d’Amelio, il che l’avrebbe tenuta lontano dalla famiglia per mesi, dopo dubbi laceranti accettò. «Se anziché “una” pm fossi stata “un” pm, la scelta di partire per dedicarmi altrove al lavoro sarebbe stata normale… ma io sono una donna, un madre e nel pensiero comune la medesima scelta era come commettere un reato, qualcosa di innaturale che meritava una condanna senza appello…E poi avrei dovuto cambiare parrucchiere…». Per difesa o per oltraggio o semplicemente perché per fortuna la frivolezza è femmina, lei ha sempre curato molto il suo aspetto soprattutto nei grandi processi, tacchi alti, capelli fiammeggianti, vistosi bijoux. Conserva ancora senza averlo mai più indossato il tailleur blu scelto per la commemorazione di Giovanni Falcone, il 2 maggio 1992 nell’aula magna del palazzo di giustizia di Milano: gli occhi gonfi di lacrime dietro i grandi occhiali neri, chiese di prendere la parola con una specie di ferocia, «Con le vostre critiche … voi lo avete infangato. Voi diffidavate di lui. E adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali ». «Al dolore che provavo per la perdita di Giovanni si sommarono attacchi e critiche impietose provenienti dai soliti avversari ma anche dagli amici». Gli uomini della sua carriera di sostituto procuratore della Repubblica di Milano che le hanno voluto bene, apprezzandola, difendendola, aiutandola talvolta sopportandola, se li ricorda tutti, con nostalgia, cominciando da Francesco Saverio Borrelli, uno dei suoi capi, il grande magistrato di «Resistere, resistere, resistere»: «non ce l’avrei fatta senza la sua ala protettiva, la sua sapienza e saggezza…». Litigi furibondi rendevano più salda l’amicizia con Peppe D’Avanzo, giornalista di Repubblica, morto di infarto a 57 anni nel luglio di dieci anni fa. Quando lo seppe, ricorda Ilda, «Pietrificata e ancora incredula che non avrei mai più visto Peppe, riuscivo a pensare solo al dolore della sua compagna Marina e di sua figlia Giulia… Con la sua scomparsa prematura, Peppe ha lasciato una voragine nel giornalismo italiano. La sua potenza di reporter e di scrittore risiedevano nella ricerca meticolosa di dati e di documenti…». E Capitano Ultimo, il militare punk con cui arrestò Totò Riina, e gli agenti della scorta e delle indagini. E Giovanni Falcone incontrato a metà degli anni ’80 quando era arrivato a Milano invasa dall’eroina per occuparsi insieme del traffico di stupefacenti e poi della Duomo Connection. Intanto era nata Alice, figlia del nuovo compagno, il magistrato Alberto Nobili, e la sua vita era diventata affannosa, lavorando con Falcone che le suscitava ammirazione, affetto, rabbia per l’ostruzionismo dei colleghi, l’indifferenza o peggio della politica, l’odio della mafia. La notte stessa dell’attentato volò a Palermo, all’obitorio il corpo del magistrato era disteso su un tavolo d’autopsia, il viso scoperto e intatto: «fu allora che giurai a lui e a me stessa… che avrei protetto la sua memoria, che avrei sempre agito in un modo che lo avrebbe reso orgoglioso di me». Sono stati i processi Lodo Mondadori, Sme-toghe sporche, Mani pulite, Ruby, a farle conoscere Silvio Berlusconi, il suo potere, il suo governo, le sue leggi, il suo denaro, i suoi avvocati, i suoi magistrati, le sue donnine, la spregiudicatezza sconfinata del suo mondo. Un periodo orribile del nostro paese, durante il quale Boccassini, continuamente insultata, delegittimata, minacciata soprattutto in quanto donna (e in quegli anni oltretutto lei soffriva di una grave malattia autoimmune) dovette cominciare a difendersi anche dagli attacchi delle donne, tutte legate a Forza Italia, come l’attuale presidente del Senato Casellati, berlusconiana, e una folta corte di donnicciole. Sulle avvilenti vicende Ruby e delle Olgettine e delle Cene Eleganti, Boccassini si chiede se «Quella del corpo delle donne è una questione molto delicata ed è difficile, alla mia età, capire cosa possa spingere ragazze giovani e belle a barattarlo per un po’ di successo in tv, per comprare una borsa griffata. Non credo che una donna possa amare le proprie rughe…» le donne non più giovani lo sanno, come lo sa lei, che varcar la soglia dei 70 anni e accettare lo status di donna anziana, con le mani rugose e qualche chilo di troppo, non è facile, soprattutto se come Ilda la Rossa è stata una bella donna. Con la fine della pandemia che l’ha costretta, data la sua malattia, a non uscire mai di casa, a non vedere per mesi e mesi né i familiari né gli amici, si concede il suo grande piacere di sempre, il cinema. In passato ha sempre cercato di andare per due o tre giorni alla Mostra di Venezia, e ricorda appassionatamente l’edizione del 2001, presidente della giuria Nanni Moretti quando l’amica Ottavia Piccolo glielo presentò: era il suo mito e «credo di non essere svenuta per miracolo!». Nel marzo del 2006 andò all’Anteo a vedere Il Caimano sperando di non essere riconosciuta: «Il film mi piacque molto e sono grata a Nanni che grazie alla sua sensibilità ha compreso e magnificamente rappresentato le mie scelte». E naturalmente il giorno dopo fu attaccata, come osava andare al cinema come un essere normale una pericolosa magistrata?
Alfio Sciacca per il Corriere della Sera

«Cosa avrebbe riservato il destino a me e Giovanni, se non fosse morto così precocemente?». Nel suo libro Ilda Boccassini si interroga e svela anche particolari inediti sul rapporto che la legava a Giovanni Falcone, il giudice istruttore che conobbe negli anni ’80 e del quale, come una ragazzina di liceo, subito pensò «comunque è un figo».
Scrive del magistrato, ma anche dell’uomo e del fascino che lo circondava. «Me ne innamorai. È molto complicato per me parlarne. Sicuramente non si trattò dei sentimenti classici con cui siamo abituati a fare i conti nel corso della vita. No. Il mio sentimento era altro e più profondo, non prevedeva una condizione di vita quotidiana, il bisogno di vivere l’amore momento per momento. Ero innamorata della sua anima, della sua passione, della sua battaglia, che capivo essere più importante di tutto il resto. Sapevo di non poter condividere con lui un cinema o una gita in barca, pur desiderandolo, ma non ero gelosa della sua sfera privata, né poteva vacillare la mia. Temevo che quel sentimento potesse travolgermi. E così in effetti sarebbe stato, perché lo hanno ucciso».
E poi racconta dei tanti incontri, di lavoro e no. Dalla giornata al mare all’Addaura, nell’estate del ’90, e di quando lui la invitò a tuffarsi. «...io pensai alla messa in piega appena fatta. Pensieri da donna che non mi fermarono e lo raggiunsi. Giovanni prima mi prese la mano, poi la lasciò e cominciammo a nuotare verso l’ignoto...».
«Ilda la rossa» svela che in realtà i suoi capelli sono «un normale castano senza infamia e senza lode, ma fin dagli anni della giovinezza mi piaceva tingermi con l’henné, un segno di libertà molto in voga tra le ragazze che negli anni Settanta tenevano alla loro emancipazione e volevano farlo vedere». A Giovanni «piacevano molto i miei riccioli. Quante volte mi ha detto che i miei occhi “erano bellissimi”».
E racconta anche dei viaggi di lavoro insieme, come quello fatto in Argentina nel giugno del ’91, per interrogare il boss Gaetano Fidanzati. «Avevo anche un walkman con una cassetta di Gianna Nannini, che ho imposto a Giovanni per tutta la durata del viaggio. Alcune canzoni mi facevano pensare alla nostra storia e le ascoltai più volte, per ore, stringendomi a lui. In top class non c’erano altri passeggeri, eravamo soli in quel lusso rilassante, la nostra intimità disturbata solo dall’arrivo delle hostess. Rimanemmo abbracciati per ore, direi tutta la notte, parlando, ascoltando Gianna Nannini e dedicandoci di tanto in tanto ad alcuni dettagli dell’interrogatorio e ai possibili sviluppi dell’indagine. Che notte...».