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 2021  ottobre 07 Giovedì calendario

Nella Roma dei barboni

Su Lungotevere Michelangelo, un cartello elettronico dice: “Ponte Industria, alternative”. Suggerisce percorsi agli automobilisti per aggirare il viadotto compromesso dall’incendio di domenica scorsa, ma lo leggo come un’indicazione – straniante, beffarda – all’umanità che, come si dice con una frase fatta, vive sotto i ponti. E lì resiste, dorme, mangia, accende i suoi piccoli fuochi. Da lì, da un fornelletto acceso, è partito l’incendio? È difficile dirlo, ma intanto è bastato – quel lampo di luce – a ricordarci il popolo del lungofiume, a ricordare che esiste: acquattato fra gli arbusti e le sterpaglie, riparato nelle tende da campeggio, accucciato all’addiaccio sulle sponde fangose del Tevere.
Alla Magliana, sotto il viadotto, «nascosti nella natura sfigurata da un fetido pot-pourri di spazzatura, pannelli di eternit e carcasse d’auto bruciate», come ha raccontato Luca Monaco nelle pagine romane di Repubblica. E sotto ponte Testaccio e ancora, risalendo il fiume verso nord, sotto Ponte Sant’Angelo. Sopra, nella città aperta, i turisti sostano per scattare fotografie. Un manifesto domanda: “Il mondo salverà la bellezza?”. Giù, una fila di tende ordinate, il ventaccio del pomeriggio autunnale le sfida. I panni stesi, le pentole, le taniche. Una bandiera del Partito comunista dei lavoratori. Passa un ragazzo altissimo, pallido, gli occhi celesti. Non capisce l’italiano, e poco l’inglese. Un uomo ascolta una canzone dei Tiromancino, chiuso nella sua tenda. Angela sbuca dalla sua, dice che è di passaggio, ha quarantotto anni: «Spero di non mettere qui la residenza». «Il domicilio però sì» scherza il compagno, con un piccolo cane al guinzaglio. Stanno bene, per quanto si possa stare bene vivendo così. Mangiare non è un problema («A Roma nun te mori de fame»), le docce a Battistini, e anche la presa per ricaricare il cellulare («Può sempre servire, magari per chiedere aiuto se c’è qualche problema, se c’è la piena, finire affogati da ’sta merda non è una bella morte»). D’estate va bene tutto, anche buttato su una panchina sopravvivi, il problema è l’inverno. «E comunque l’altra notte è venuto giù un temporale devastante, c’era un ragazzo senza tenda, è rimasto sotto l’acqua per ore».
Sotto Ponte Risorgimento incrocio una grossa tenda di fortuna, un telone di plastica sotto cui dormono due amici che si dicono «tedeschi di Ostia» – uno lava con acqua e sapone una padella; l’altro, su quella pulita, prepara un tappeto di spicchi d’aglio per cucinare una pasta. Con cosa? «Con quello che c’è». Sorridono, sono amichevoli: «Si sta tranquilli qua, meglio che da altre parti. Se il Tevere sale, andiamo via. Ma per ora va tutto bene, vedi? Siamo noi, e questi gatti che ci danno una mano con i topi». Poco oltre, un ragazzo nero si affaccia da una specie di spelonca terrosa attrezzata con una poltrona, un materasso, i tegami a terra. Si tira su i calzoni e si li riabbottona, forse l’abbiamo interrotto che faceva l’amore, perché dà una voce a chi è nascosto dalla tenda. Dice che non vive lì, che deve riprendere il suo viaggio. Di dove sei? «Italiano», risponde. A tenere gli occhi fissi a terra, nelle screpolature del fango secco, fra gli sterpi, nelle pozzanghere, affiora una massa di tracce umane: abiti zuppi, appallottolati, vecchie coperte, mozziconi, lattine, bottiglie di birra, forchette, perfino un ferro da stiro.
All’altezza del Ponte della Musica c’è una nave incagliata nel niente. Si chiama “Tiber II”, è lì dal 2008. Il Titanic di Roma, l’ha ribattezzato qualcuno. A bordo, si fa per dire, due cani, il presunto custode e un suo amico. Sono romeni, garantiscono che quell’imbarcazione è ancora proprietà privata («…di Vitale. Non lo conoscete? Ha anche tre alberghi») e che loro non abitano lì. Nonostante i panni stesi e l’arrivo di una donna con le buste della spesa. I cani abbaiano, mentre passano placide le canoe sul fiume, passano i podisti, e gli appassionati sono impegnati sul campo di padel. Il fiume, in questa città, non si vive in un modo solo. E adesso tira vento, un vento ostile – parlo di un dato meteorologico, ma non solo. «Tira così forte anche su?», mi domanda una donna riparandosi con un ombrello. Vedo, nell’ordine, ancora un uomo stravolto, forse fatto; crolla con la schiena all’indietro, fra le foglie. E un altro a piedi nudi sulla terra umida. Guarda nel vuoto. Non ho il coraggio di chiedergli niente.
Raccontando un suo viaggio fra i senzatetto, quelli che vivono «sotto la strada, ovunque», un grande scrittore americano, William T. Vollmann, si domandava quali fossero esattamente le speranze di persone che vivono esistenze come queste, esistenze che è impossibile invidiare. E che tuttavia hanno le loro misteriose leggi e ragioni e abitudini anche ostinate, spesso indecifrabili.
La povertà, d’altra parte, se si è fra i fortunati, si può conoscere solo «a sprazzi, dall’esterno». E le domande «perché sei povero?», «perché sei qui?» non sono domande che si possano fare senza imbarazzo. Usiamo le parole “decoro”, o “degrado”, per manifestare il disagio che proviamo quando la città, il mondo non riesce a salvare la bellezza. Ma queste sono vite; e intanto il vento non si placa, e sta facendo buio.