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 2021  ottobre 05 Martedì calendario

Su "Canto per Europa" di Paolo Rumiz (Feltrinelli)

In questo suo Canto per Europa (Feltrinelli) Paolo Rumiz fa un viaggio dei suoi ma, questa volta più di altre, incrocia una triplice dimensione: lo spazio ma anche il tempo, contemporaneamente gettando un qualche chiarore «in interiore homine», là dove, secondo Agostino, «habitat veritas». Lo spazio è quello del Mediterraneo, piccolo lago salato da migliaia di anni al centro della storia del mondo. Questa macchia blu, sulle cui rive sono nate le tre religioni monoteiste, ha conosciuto più di ogni altro mare gli odi più profondi e le conquiste più ardite, ha nutrito le moltitudini, altrettante ne ha fatte morire, ha guidato in uguale misura la civiltà, l’arte dei commerci, la furia dello sterminio. Come annota l’autore a un certo punto: «Passarono i dispersi a Màtapan, a Salamina, Trafalgar e Lepanto...», potremmo aggiungere Anzio, Taranto, la stessa Trieste e cento altri nomi, da Gibilterra a Gallipoli; per secoli i destini del mondo conosciuto hanno attraversato questo mare.

Chi sa come manovrare una barca, la tecnica e i trucchi delle vele, come scansare i pericoli, sfruttare le occasioni, apprezzerà la consumata esperienza dell’autore che racconta ogni momento della navigazione: quando la bonaccia dilata il tempo, quando la furia delle onde si fa spaventosa: «Come stalloni selvaggi le onde turchine ci seguivano schiumanti». In queste condizioni la barca stessa diventa una protagonista. Si chiama Moya, nome complicato compreso un possibile connotato sacro. Racconta di sé la barca: «Sono nata sotto l’ultimo Edoardo, cantieri Crossfield nei pressi di Arnside, nel millenovecentodieci. Eccomi sopravvissuta a due guerre mondiali, al crollo di un Impero, al vandalismo, all’ignoranza, alla mediocrità di un’epoca arrogante». Ospita spazi ristretti, necessità di cambusa, affollamento d’oggetti: «Il vaso del basilico, il melone, bottiglie, sacchi a pelo, parabordi, scatolame, maglioni, asciugamani». Trascrivo qualche riga presa qua e là anche perché si colga il ritmo segreto di queste pagine che è, niente meno, il martellare dell’endecasillabo, forse scelto dall’autore per dare eco all’eterno battere delle onde. Rumiz, sfruttando la sua nota, fruttuosa, vena di follia, ha voluto fare anche questo regalo ai suoi lettori, nascondere in un libro che sembra scritto in prosa, il canto del verso principe della metrica italiana, quello dal ritmo più vario, il più armonioso.

Poi l’equipaggio, ovviamente. Sam ebreo francese che un brutto incidente ha reso zoppo, Petros il capitano greco emigrato in Gran Bretagna, Ulvi un marcantonio turco, Rumiz dalla ruvida parlata nata tra Istria e Dalmazia. Quattro Argonauti, tutti figli di frontiera, alla ricerca del nome dimenticato del loro continente.
Poi un giorno nel porto di Tiro in Libano, compare una fanciulla, misteriosa, selvatica, in realtà spaventata, ha sul corpo segni di violenza, si caccia a bordo quasi di forza; il suo nome è Evropa (sic) non ha denaro né documenti. Solo un anello verde di smeraldo e un bigliettino con il suo nome: «Rimase zitta, non volle rispondere a quel cerchio di uomini barbuti. Mostrò soltanto il largo con un dito». Nessuno si chiede da dove venga: un bordello di Sidone? Un campo profughi della Bekaa? Fuggiasca? Orfana? Non ha importanza tale l’urgenza d’un segnale che s’impone come un ordine.

Con la nuova presenza a bordo il viaggio trova un altro senso, Evropa vuole andare lontano, in poveri termini, vuole fuggire. Ed è qui, con Evropa a bordo, che il tempo comincia davvero a sdoppiarsi, quelli che erano stati sfocati richiami di un mare pregno di storia, diventano ora una nuova dimensione spazio-tempo. Il presente si mescola ai lontani anni del mito quando tutto ebbe inizio e gli dèi scendevano sulla terra per giacere con una femmina umana. Giove in persona, sotto forma di toro, rapisce Evropa: «Forse era il toro alato degli Assiri, forse il vitello d’oro degli ebrei, o Api annunciatore di semina». Il toro-dio la depone con dolcezza sotto un platano immenso, la lecca da capo a piedi con la lingua ruvida: «Prima le orecchie e le spalle. Poi vennero le chiavi di violino delle scapole. I fianchi morbidi, il ventre fiordilatte, le caviglie...». Tre giorni dura il divino amplesso e lui alla fine, strappa un cespuglio di timo profumato e lo depone tra i seni di lei.

Si torna al presente come da un sogno. Il viaggio prosegue tra cento avventure, quelle che conosce chiunque vada per mare; l’incontro improvviso con un’immensa nave da crociera che fa quasi inabissare la piccola barca, gli spettacoli tremendi che qualche volta di notte si scorgono sulle rive: «Una criniera di fiamme si alzava sui monti di Leonida, sul Pelio e su tutto il crinale dell’Eubea. Sulle cime dei monti si sentiva il rombo di elicotteri antincendio... Il creato non era più il creato ma ettari di spazio edificabile». La quiete nel porticciolo, con quel cibo mediterraneo unico al mondo: «Olive feta pane pomodoro e calamari a friggere all’arte... un’ospitalità fatta di niente».
Come per contrappasso l’orrore quando Sam il francese s’immerge «verso teschi con alghe per capelli e il ghigno di mandibole abitate dalla lingua urticante delle attinie». Spaventato, si gira verso l’alto, intravede, senza capire, altri oggetti: «Sembravano immondizie alla deriva, sospesi tra fondale e superficie sotto le bianche medaglie di spuma. I corpi dei bambini naufragati andavano in un banco taciturno come stracci buttati alla rinfusa... “Adonai non così! Perché consenti ancora lo sterminio degli agnelli?”. Così gridò il francese nel silenzio».

Quando, superato lo stretto tremendo tra Scilla e Cariddi, Moya finalmente approda sulle rive di Calabria, Evropa, che nel frattempo è diventata Europa, così com’era arrivata, se ne va – di colpo, senza una parola. «L’avrei capito dopo, molto dopo, ripensando a quegli attimi sul mare. Lei non era partita. Era scomparsa. Semplicemente era uscita dal tempo». È finito il viaggio, ma anche il compito dei naviganti, i quali dovevano solo traghettarla: «Restituirle il sogno di una terra, farla arrivare, farle oltrepassare le sue paure ataviche e ossessioni». Petros il capitano ha spesso issato accanto alla bandiera inglese quella blu stellata. Infatti, in chiusura, Rumiz mette anche una specie d’invettiva contro chi ha scelto d’abbandonarla, quella bandiera: «Voi tristi abitatori delle nebbie che avete rinnegato vostra madre, troppo tardi, ho paura, capirete che senza Europa farete naufragio». Europa, ecco il canto, madre di tutti quelli che vengono da lontano, sogno di una casa per chi non ce l’ha.