Corriere della Sera, 5 ottobre 2021
Su "Storie di fuoco. Patrioti, militanti, terroristi" di Paolo Macry (il Mulino)
C’è qualcosa che accomuna molti uomini (ma anche qualche donna) i quali, pur assai diversi l’uno dall’altro, tra Ottocento e Novecento furono presi dal «demone della politica». Persone che «si gettavano nella mischia per affermare le idee del loro tempo». Che per «la causa» erano disposti a tutto. Che misero «a rischio la propria stessa vita, il proprio corpo». Minoranze sparute, «ma capaci talvolta di avere un grande peso sulla scena pubblica», sostiene Paolo Macry in Storie di fuoco. Patrioti, militanti, terroristi, che esce in libreria dopodomani per il Mulino.
Capostipite di questa tipologia di personaggi può essere considerato Filippo Annibale Santorre De Rossi conte di Santarosa (1783-1825), figlio di Michele, colonnello dell’esercito sabaudo che, a fine Settecento, si oppose strenuamente all’invasione napoleonica. Poi però quell’ufficiale si adeguò al regime di occupazione francese. Finché nel 1799 un esercito austro-russo strappò il Piemonte agli occupanti e, a quel punto, il padre di Santorre, «cercò inutilmente di barcamenarsi con i nuovi padroni». Nuovi padroni che, però, lo misero sotto inchiesta per i suoi «trascorsi giacobini» e lo radiarono dall’esercito. Nel giro di pochi mesi il conte Michele (che in tre o quattr’anni «aveva servito la bandiera sabauda, poi quella repubblicana, poi quella viennese») ne morì. E, a diciassette anni, Santorre rimase orfano. Con gli occhi del padre quel giovane «aveva potuto sperimentare occupazioni straniere, fuochi rivoluzionari, sovrani esiliati». Storia i cui inizi sono stati ben ripercorsi da Filippo Ambrosini in Santorre di Santarosa. La passione e il sacrificio (Edizioni del Capricorno).
Nel 1800 il Piemonte venne riconquistato da Napoleone e annesso alla Repubblica d’Oltralpe. Santorre entrò nella guardia d’onore di Napoleone e fu nominato dai francesi sindaco di Savigliano. Poi nel 1814 il Bonaparte fu sconfitto, a Torino rientrarono i Savoia con Vittorio Emanuele I e il giovane Santarosa venne epurato. Ma due anni dopo, grazie allo zio Filippo Asinari di San Marzano, ministro della guerra, ottenne un posto di rilievo nel ministero stesso. Finché, nel 1820, una nuova fiammata rivoluzionaria partita dalla Spagna (un «raggio di luce», lo definì Santorre) contagiò il Regno delle Due Sicilie. Per un attimo sembrò che l’ora fosse scoccata anche per il Piemonte. Santorre, nominato dallo zio membro dello stato maggiore dell’esercito, si rivolse al re con un appello («Siamo italiani, o Sire») in cui esortava il sovrano a scrollarsi dalla protezione austriaca e a mettersi alla testa di un moto per unificare la penisola. Cesare Balbo, suo grande amico, cercò di dissuaderlo da quella «pericolosa» iniziativa. Ma Santorre non volle sentir ragione e si tuffò nella rivoluzione venendo meno al giuramento di fedeltà alla monarchia («Ci allontaniamo per un momento dalle leggi della subordinazione militare», si giustificò). Vittorio Emanuele abdicò in favore del fratello Carlo Felice, che affidò la reggenza al cugino Carlo Alberto, il quale si fece convincere dai «santorriani» a concedere la Costituzione. Carlo Felice ingiunse al cugino di rientrare nei ranghi e Carlo Alberto obbedì. Non prima, però, di aver nominato il Santarosa ministro della Guerra. E il figlio del conte Michele interpretò quella nomina come l’occasione propizia per vendicare la memoria del padre. Assunse la guida di un governo rivoluzionario «con una determinazione», nota Macry, «che rasentava l’avventurismo».
L’esercito austriaco, giunto in soccorso di Carlo Felice, varcò il Ticino e sconfisse i rivoluzionari a Novara (8 aprile 1821). Santorre riparò a Parigi e dai torinesi fu condannato a morte in contumacia. Quando capì che in Francia non era al sicuro, si trasferì a Londra, dove strinse amicizia con Giovanni Berchet e Ugo Foscolo. Giunto in Inghilterra, si trasferì a Nottingham, fece fatica a imparare l’inglese, visse in povertà e si mise a scrivere lettere struggenti alla moglie vagheggiando di potersi ricongiungere ad almeno uno dei figli. Una storia simile a quelle ripercorse da Maurizio Isabella in Risorgimento in esilio (Laterza) e da Agostino Bistarelli in Gli esuli del Risorgimento (il Mulino).
Quando nel 1824 si acuì la guerra greca per affrancarsi dall’impero ottomano, fu per Santorre una liberazione: scriveva lettere su lettere in cui diceva di provare «un amore che ha qualche cosa di solenne» nei confronti di quel «popolo fratello», della «patria di Socrate». I delegati del governo provvisorio greco presenti a Londra non volevano che quel genere di esuli andasse a combattere per loro, mettendoli in difficoltà con l’impero asburgico e con lo stesso Piemonte. Persino gli inglesi, scrive Macry, «non vedevano di buon occhio la partenza degli italiani per il Peloponneso». Ma Santorre di Santarosa non volle sentir ragione: «Reputo un dovere il consacrare alla Grecia i pochi anni di vigoria che mi restano ancora», fu la sua decisione. E partì.
I greci lo accolsero con freddezza. «Che credete? Non d’uomini, non d’armi, non di munizioni abbisogniamo, ma di denaro», gli dissero al primo incontro. Per di più un capo della «rivoluzione del ’21», condannato a morte avrebbe reso la loro causa «invisa a tutti i governi dell’Europa». Gli imposero di cambiare nome. Si sarebbe chiamato Annibale Derossi. Non gli avrebbero assegnato alcun incarico. Avrebbe dovuto combattere come un soldato qualsiasi. E lui, nelle lettere, riprese a lamentarsi del proprio destino: denunciava l’inadeguatezza dei comandanti greci che gli apparivano «piccoli uomini» divisi da «discordia e ambizioni»; sollevava il problema della lingua che aveva già dovuto affrontare in Inghilterra: «Mi mordo le labbra da ira di non sapere il greco». Nel maggio del 1825 scrisse del suo pentimento «di essermi a quarant’anni scostato dalla mia massima di condotta di non servire che la patria mia». Finché sparì nella difesa di Sfacteria; fu trovato il cadavere di un uomo con gli occhiali e sembra che tra i combattenti fosse l’unico a possederne un paio; fu probabilmente seppellito in una fossa comune e, sottolinea Macry, «i greci lo avrebbero dimenticato perfino nelle loro commemorazioni dei morti per l’indipendenza».
Forse, secondo Macry, a pesare in quella sua ultima scelta, era stato «il desiderio di gloria più che l’amore della patria». Una pulsione «al tempo stesso egocentrica e generosa che si sostituiva al principio di realtà». Come avrebbe detto Benedetto Croce, quel genere di personaggi «amavano e cercavano i pericoli e vi perivano dentro».
Trascorse un ventennio e giunse l’ora dei cospiratori. Non più «quei solitari che erano morti per il riscatto di popoli lontani», che si erano messi in luce per «il loro cercar gloria nel sacrificio di sé», per «il forte individualismo». Giuseppe Mazzini fu l’uomo che fece compiere questo salto. E, scrive Macry, «da Santorre ai mazziniani il salto fu vertiginoso». Niente più «sensibilità egocentrica», «introversione malinconica», «culto della nostalgia». Adesso — lo hanno ben analizzato Arianna Arisi Rota in I piccoli cospiratori. Politica ed emozioni nei primi mazziniani (il Mulino) e Dino Mengozzi in Corpi posseduti. Martiri ed eroi dal Risorgimento a Pinocchio (Lacaita) — «servivano», scrive Macry, militanti giovani disponibili al sacrificio, liberi da responsabilità familiari», pronti ad eseguire i «compiti che il leader attribuiva loro dall’esilio londinese».
Furono loro i protagonisti del 1848, delle Cinque Giornate di Milano, poi della Repubblica romana. Così come i congiurati di Mantova riuniti a partire dal novembre 1850 attorno al sacerdote Enrico Tazzoli, di cui si è occupato Maurizio Bertolotti in Le complicazioni della vita. Storie del Risorgimento (Feltrinelli). Diedero vita, questi congiurati, a un Comitato rivoluzionario che ne figliò altri a Brescia, Cremona, Milano, Pavia, Venezia: migliaia di ragazzi più o meno giovani. Il feldmaresciallo Johann-Josef Radetzky fu implacabile nei confronti di quella che definì una «malintenzionata jeunesse dorée»; decise senza tergiversare che non li avrebbe lasciati «giocare alla rivoluzione», ne avrebbe catturati il maggior numero possibile e li avrebbe mandati direttamente al patibolo. I cospiratori però non si resero conto dei rischi che correvano. Un piccolo gruppo di questi mazziniani progettò addirittura il rapimento dell’imperatore Francesco Giuseppe. Tazzoli, il più avveduto, definì «stravagante» questa idea. Ma non gli diedero ascolto.
Nel gennaio del 1852 un poliziotto che i cospiratori avevano progettato di uccidere, Filippo Rossi, prese ad arrestarli uno ad uno. A cominciare da Tazzoli che fu impiccato, assieme a Carlo Poma, Angelo Scarsellini, Tito Speri, Carlo Montanari, Bernardo Canal, Bartolomeo Grazioli e alcuni altri. Furono ribattezzati i Martiri di Belfiore, dal nome del luogo, all’ingresso di Mantova, dove vennero giustiziati. Colpisce il loro eroismo, ma anche la loro ingenuità. E un qualche senso di colpa per il dolore che, con la loro morte, provocavano ai loro cari. «Bruciate ogni cosa e cercate non dirò di obliarmi, ma di non pensare sempre a me, cercate anzi di pensarvi il meno possibile», scrisse al padre Bernardo Canal. Anche coloro che si salvarono dalla forca non ebbero vita facile per quelli che Macry definisce gli «strascichi della cospirazione».
Esemplare il caso di Luigi «Bigio» Castellazzo, arrestato, torturato e infine rimesso in libertà grazie all’amnistia del 1854. Bigio Castellazzo fu in seguito accusato dai compagni di esser stato responsabile del fallimento della congiura. A nulla valsero i titoli conquistati da Castellazzo per aver già combattuto nella Repubblica romana. Qualcuno, in particolare Giuseppe Finzi (anche lui liberato a seguito dell’amnistia), diffuse la voce che Bigio aveva «parlato» consentendo la decrittazione dei codici della congiura». E la «leggenda nera» perseguitò Castellazzo perfino quando si unì ai Mille di Giuseppe Garibaldi (che ne apprezzò pubblicamente il valore), fu ferito nella battaglia del Volturno, combatté contro gli austriaci nel 1866 per poi finire nelle carceri pontificie. Sempre perseguitato però da quel marchio di infamia. Giuseppe Cesare Abba, il cronista dei Mille, annotò un episodio di cui era stato testimone ai tempi della guerra d’Indipendenza del 1866, guerra in cui Castellazzo si era battuto nelle file garibaldine. Un giorno di fronte ai compagni, esasperato dalle accuse di tradimento, «si calò i pantaloni e il più orribile spettacolo di cicatrici e lividi si presentò agli occhi di tutti». Ma non servì a niente.
Dopo la presa di Roma, nel 1870, Castellazzo fu liberato e considerato un eroe, oltre che da Garibaldi, da Mazzini, Carducci, Bertani. Ma Finzi non si diede pace: pretese e ottenne due volte l’istituzione di un giurì d’onore per «processare» Castellazzo. Tutte e due le volte Bigio ne uscì «assolto». Garibaldi si recò a Mantova per ottenerne una piena riabilitazione: in un teatro gremito lo indicò come «uno fra i più prodi dell’indipendenza italiana», una persona che non meritava di essere perseguitata «dalla calunnia». «Vengo a reintegrarlo nella vostra stima», fu l’applaudita conclusione dell’eroe dei due mondi. Ma non ci fu niente da fare. Su Bigio restò un’ombra. Nel 1884 fu eletto deputato per la Sinistra. Ma Finzi, parlamentare della Destra, insisteva nella sua campagna mirando all’annullamento del voto. Senza successo. Al che fu Finzi ad abbandonare il seggio in segno di protesta. Poi i due morirono. Ma nel 1903 quando, a cinquant’anni dagli avvenimenti, il municipio di Mantova collocò sotto il portico di Palazzo Ducale una lapide con i nomi dei cospiratori (tra i quali figurava anche quello di Castellazzo) ci furono nuove polemiche e i discendenti di Finzi ottennero il sequestro della lapide.
Finì nel 1918 la Grande guerra, l’Impero austro ungarico andò in frantumi e furono aperti gli archivi. Le carte consentirono di capire per quali vie gli uomini di Radetzky avevano decrittato i documenti attinenti alla congiura mantovana. Castellazzo non aveva responsabilità. Ma le polemiche proseguirono. Ed è incredibile quante analogie con queste storie dell’Ottocento si ritroveranno tra «patrioti, militanti e terroristi» del secolo successivo.