Corriere della Sera, 6 ottobre 2021
Gli sconfitti di Stajano
C’è spesso Montale nei libri di Corrado Stajano. In Patrie smarrite, il ricordo dei gerarchi nazisti in visita a Cremona richiama alcuni versi de La primavera hitleriana: «Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale…». La stanza dei fantasmi si conclude con una speranza: «Pensa:/ cangiare in inno l’elegia; rifarsi;/ non mancar più (…); e nel sole/ che v’investe, riviere,/ rifiorire!». Anche il viaggio dentro la memoria di Milano, La città degli untori, è accompagnato dalla voce del poeta: «La storia non si snoda/ come una catena/ di anelli ininterrotta».
E anche qui, in Sconfitti (in uscita domani per Il Saggiatore), ritorna il Montale de La bufera. In chiusura c’è un verso famoso che porta l’immagine di una bottiglia (con messaggio?) non ancora arrivata dal mare: «L’onda, vuota, si rompe sulla punta, a Finisterre». Leggendo le ultime opere di Stajano, dove troviamo molto della sua vita, si potrebbe però pensare a La casa dei doganieri, dove il poeta tiene tra le dita un capo del filo «addipanato» della memoria. Ed è anche qui, come sempre, una memoria dolorosa e risentita, una memoria molteplice che detta il suo ritmo alla narrazione partendo dal presente e tornando di continuo al presente, per cercare un senso all’ultima tragedia, quella dell’epidemia, con le sue conseguenze.
Di cosa è fatta questa molteplicità? È innanzitutto memoria di cose viste e di persone incontrate (alcune amiche), cioè il formidabile talento dello Stajano giornalista, lo spettatore della «macelleria dell’orrore» che il 12 dicembre 1969 è entrato nella Banca dell’Agricoltura appena esplosa la bomba; il camminatore per le strade lugubri di Palermo il giorno dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa; l’inviato in Sicilia per il funerale di Falcone. Poi c’è la memoria privata dei tempi della guerra, l’infanzia a Como, il ritorno dei reduci, l’attesa del padre, le macerie di Milano, fino all’Italia dei consumi sfrenati. Ed è questa una memoria individuale che interrogando il sentimento collettivo disegna una storia più grande, ricostruita dalla consapevolezza dell’intellettuale-storico. E c’è un ultimo filo, la memoria degli autori cari, classici e contemporanei, che vengono evocati per dialogare tra loro e con l’autore, da Guicciardini a Grossman, da Lucrezio a Leopardi, da Manzoni a Dickens, da Gadda a Camus, da Pellico a Calvino, da Carlo Levi a Prosperi: una polifonia.
In questo nuovo libro si celano anche i libri precedenti di Stajano, soprattutto i libri della memoria appunto, perché la memoria ha questo di formidabile e tormentoso: si addipana, poi si sdipana e si addipana ancora, capricciosamente. Ci sono i libri precedenti, ma oggi nella casa interiore del doganiere Stajano è il vuoto irreale pandemico a creare una sorta di stanza sonora dei fantasmi. Più il contagio chiude e svuota gli spazi, più quei fantasmi tornano a muoversi e a parlare. Per questo, Stajano non può che prendere avvio da quel presente (da questo presente), cioè dai mesi prolungati del lockdown, raccontati nella loro desolata allucinazione, desolata come la casa di Montale, che accoglie lo sciame dei pensieri e dei ricordi.
Desolata è la Milano della pandemia, la «città degli untori» oggi come ieri. Non so se qualcun altro riuscirà a farci vedere con tanta precisione classica e fermezza morale quei mesi terribili narrati con il tono del romanzo distopico (ma ahimè ormai realizzato): «La piazzetta e le vie tutt’intorno sono deserte, dai balconi e dagli abbaini spiovono i glicini di primavera. Gli ippocastani, sull’angolo di via Fratelli Ruffini, con i ciuffetti di fiori bianchi, sembrano sentinelle di guardia a una caserma abbandonata». È appunto da questo abbandono che emergono i «ricordi del sanguinante Novecento diventati esperienze». Sui suoi ricordi Stajano ha fatto un lungo lavoro, perché, come scrive Rilke, i ricordi tornano davvero nostri e si fanno esperienza solo quando «diventano in noi sangue, sguardo, gesto, anonimi e indistinguibili da noi». L’esperienza di Stajano ha attraversato soprattutto storie di sconfitti «per amore di giustizia e libertà» e sono quelle stesse storie che occupano il cuore del libro, la parte centrale dopo la cornice sul presente malato. Il cuore del libro, in nove ritratti o fuochi, è un cuore musicale, orchestrato magistralmente, con battiti non regolari, quasi da extrasistole, e dunque tanto più angoscianti e imprevedibili, che alternano vuoti e pulsazioni accelerate, dove l’io narrante qua e là si palesa ma sempre con molto pudore, scompare e riemerge a distanza per scomparire di nuovo occultandosi dietro una terza persona.
Nel primo movimento, l’io narrante è il bambino nei giorni dopo la fine della guerra, quando la felicità della liberazione è barlume che vacilla sperando nel ritorno del padre, ufficiale finito prigioniero in un lager nazista. «Poi, una sera, bussò alla porta un irriconoscibile soldato con indosso una giubba a brandelli»: è il capitolo in cui si incontra il ritratto commovente di Nesi Domenico, l’amico di famiglia («ero diventato grande accanto a lui»), fedele attendente del padre di Corrado in Francia, in Jugoslavia, in Russia, poi fatto prigioniero e scomparso: «Qualche volta (mia madre, malcontenta, tollerava) Nesi Domenico mi accompagnava, o meglio ad accompagnarlo ero io, al cinema, il Teatro Sociale, il Moderno». Poi, nel clima festante della liberazione, incontriamo Italo Pietra, il comandante partigiano senz’armi detto Edoardo, «con indosso una giacca a vento gialla, i pantaloni da ufficiale, i calzettoni bianchi». Il ballo di quei giorni nei giardini pubblici, nei cortili, nelle fabbriche: sono pennellate sulla gioia e sul «nostos», il rimpatrio («Il primo giorno, la prima notte del ritorno, il superstite parlava, parlava affannoso. Poi si chiudeva in un sordo silenzio»).
L’amico Nuto (Revelli) è ripreso in quattro rapide, bellissime, sequenze abitate da altre voci e ritratti e frammenti di opere altrui. È questo il modo di lavorare di Stajano: il primo incontro sotto la pergola di una trattoria di Boves, poi l’obiettivo si volge all’indietro verso la ritirata di Russia, verso l’armata italiana sfasciata, si richiude per zoomare lo studio di Nuto con i suoi cimeli, si riapre sulla resistenza dell’ex sottotenente degli alpini e dei suoi compagni, di nuovo si restringe a filmare il partigiano lasciato solo nel dopoguerra con le sue malinconie e le sue rabbie, divenuto venditore di ferro e scrittore. Passando agli anni della ricostruzione, Stajano sceglie figure ai margini, come il vecchio che suona la chitarra per strada e cantando «I morti di Reggio Emilia» offre lo spunto alla memoria per dipanarsi verso il tempo del governo Tambroni, gli scontri di Genova, le manifestazioni antifasciste dell’estate 1960, gli spari della polizia, le morti. Sono i fari che Stajano accende, avanti e indietro, sui momenti tragici del Novecento. Ma anche su quelli grotteschi, suggeriti per esempio dalla figura del gesuita padre Riccardo Lombardi, arcigno censore del comunismo. E poi via via, la pagina sensuale ambientata nella Cremona della giovanissima Mina, la cui voce «dirompente e lancinante» è ancora ignara di sé e del futuro. La pagina sulle cascine ormai abbandonate in cui intravediamo l’ombra di Olmi. Il capitolo sul commendator Giovanni Borghi, padrone dell’Ignis nel Varesotto, che nel suo ufficio teneva un frigorifero d’oro: Stajano andò a trovarlo nel 1963 per «Il Mondo» e ora lo richiama alla memoria come eroe dell’Italia del boom. Sconfitto tra gli sconfitti, anche lui che sognava paternalisticamente di avere solo lavoratori con il sorriso negli occhi. E ancora palpitando riviviamo la notte di Pinelli, ci troviamo nella stanzetta a livello della strada in cui lavorava il quarantenne Falcone prima di essere Falcone, saliamo sull’altare di San Domenico accanto alla sua bara, entriamo a Palazzo Madama nel pieno di una burrascosa riunione della Commissione antimafia del 1994.
Non c’è solo la mano ferma del cronista, ma in questo libro più che in altri si avverte il desiderio (riuscito) di superarsi anche sul piano stilistico, appunto musicale, con accensioni liriche pur molto parche. Del resto, l’understatement è sempre stata la cifra di Stajano: benché ami Carlo Emilio Gadda, il suo racconto morale e memoriale preferisce togliere che aggiungere. Pregio non secondario se si osserva il panorama stilistico del mainstream narrativo di questi anni. Una lezione di stile e insieme di vita sofferta che diventa storia. Verrebbe da dire: studiate i manuali, ragazzi, ma se davvero volete avere esperienza del Novecento leggete Stajano.