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 2021  ottobre 06 Mercoledì calendario

La grande crisi di Facebook oltre il blackout

SAN FRANCISCO — Erano le 8.40 del mattino di lunedì 4 ottobre, qui in California, quando il messaggio “Error” ha cominciato ad apparire a tratti su WhatsApp, Instagram, Facebook, Messenger. Prima sporadicamente, poi in modo sistematico, dal cuore della Silicon Valley il blackout informatico è dilagato nel mondo intero. Il centro del caos, il quartier generale di Facebook a Menlo Park, era in ginocchio. Ingegneri informatici, esperti di tecnologie, tutto l’esercito di talenti che lavora per il più grande social media mondiale, era alle prese con problemi banali e sconfortanti: molti non riuscivano neppure a entrare negli uffici di Menlo Park perché il software della sicurezza interna era coinvolto nel blackout e non riconosceva i loro badge, i tesserini magnetici di riconoscimento. Bloccati i calendari di appuntamenti e le piattaforme per il lavoro condiviso, perfino le email funzionavano a singhiozzo o non arrivavano. “Alto rischio”: l’allarme lanciato dal centro di sicurezza globale di Facebook suonava come ovvio, tautologico e tardivo: tutti lo avevano già capito, il guaio era enorme e mondiale.
Mark Zuckerberg e il top management nell’emergenza dovevano affidarsi a una task force umana, non all’intelligenza artificiale: un gruppo di tecnici spediti d’urgenza in un centro di computer server a Santa Clara, sempre nella Silicon Valley, per un “reset manuale”. Un lavoro da idraulici, insomma: e con tutto il rispetto per le eccellenze nella manualità. Una lotta contro il tempo, per rimediare al disastro globale. Una fatica durata più di 5 ore, prima di riuscire a riattivare le piattaforme digitali. Al termine, la direzione del colosso digitale era costretta a un piccolo gesto di umiltà: usare un social media concorrente, Twitter, per annunciare urbi et orbi : “We are sorry”. Ci dispiace e ci scusiamo per gli inconvenienti provocati. Troppo poco, troppo tardi, e soprattutto una evidente avarizia di spiegazioni. Un’arroganza da parte di Mark Zuckerberg, forse collegata alla sindrome da stato d’assedio, per tutte le offensive che convergono su di lui simultaneamente. Intanto in quel lunedì 4 ottobre le azioni di Facebook avevano perso quasi il 5% in Borsa, per quello che la stessa azienda definisce il peggiore blackout da 13 anni. Ma i paragoni con il passato ingannano. Il precedente accadde nel 2008 quando il social di Zuckerberg aveva solo quattro anni di vita e un ruolo minore nella nostra vita. WhatsApp non esisteva neppure.
Lunedì 4 ottobre la paralisi di oltre cinque ore ha coinvolto circa tre miliardi di utenti, la maggioranza dei quali ormai si trovano fuori dagli Stati Uniti: dall’Europa all’Australia e ben 400 milioni di utenti solo in India. Spicca l’eccezione solitaria della Cina, che è chiusa all’universo Facebook, usa social media e messaggerie autoctone come Weixin- WeChat. Tutto il resto del mondo ormai dipende dall’ecosistema- Facebook come da una utility che fornisce servizi essenziali: il telegrafo di una volta, il telefono dei monopoli pubblici sulle linee fisse, la luce o l’acqua corrente. Il paragone non è esagerato, solo su WhatsApp transitano ormai 100 miliardi di messaggi al giorno. Un universo di piccole imprese ormai ha impostato i suoi rapporti con dipendenti, fornitori e clienti, sull’uso di queste messaggerie gratuite. Molti Paesi emergenti hanno saltato a piè pari lo stadio delle infrastrutture fisiche pesanti per passare alla tappa successiva affidandosi quasi esclusivamente ai cellulari, come mezzo di comunicazione ubiquo per tutte le loro attività economiche. Il danno del blackout all’economia mondiale è recuperabile velocemente, però è un campanello d’allarme. Come non pensare a uno scenario di guerra in cui quel tipo di paralisi nella comunicazione sia provocato da unattacco straniero?
L’avarizia di spiegazioni da parte di Zuckerberg si spiega: il fondatore, chief executive e maggiore azionista del social media nel giorno cruciale del grande blackout aveva l’attenzione rivolta a un altro tipo di minaccia. La politica in America si sta trasformando in un nemico, dopo che per anni era stato ossequiente fino al servilismo. Già nel Day After del blackout, i titoli dei media sono sull’altro fronte aperto contro Facebook. In primo piano c’è l’audizione al Congresso di Frances Haugen, la 37enne whistleblower o “gola profonda” che da giorni sta rivelando verità scomode. La ex collaboratrice ha reso note migliaia di pagine di studi interni a Facebook che «non dovevano mai essere pubblicati» per disposizioni dei suoi superiori: per esempio sulle conseguenze nefaste dei social media sulla salute mentale di bambini e adolescenti. Le audizioni al Congresso si estendono ad altri problemi: per esempio il ruolo di Facebook e altri social media nel mettere in circolazione fake news amplificandole (vedi i no-vax). Contro Zuckerberg si scatena una destra repubblicana che non gli perdona la censura a Donald Trump e solleva questioni legittime sulla democrazia americana: chi ha stabilito che un pugno di miliardari del digitale abbiano il diritto-dovere di regolare la libertà di espressione? Ma anche la sinistra tenta di divincolarsi da quell’alleanza con i potentati del capitalismo digitale che era diventata un abbraccio soffocante. Joe Biden ha designato alla guida della Federal Trade Commission, cioè dell’antitrust, la giovane giurista Lina Khan (32 anni) nota per le sue posizioni drastiche contro i monopoli di Big Tech. Riaffiorano le tesi di Elizabeth Warren, la senatrice del Massachusetts favorevole a uno smembramento dei colossi della West Coast. È già in corso, dopo l’istruttoria, un procedimento giudiziario dell’antitrust Usa contro Facebook per abuso di potere monopolista. Nel mirino ci sono proprio le acquisizioni di WhatsApp e Instagram, due mosse che vengono accusate di avere come obiettivo l’eliminazione della concorrenza. Il blackout del 4 ottobre non può che incoraggiare l’Ue nella sua ricerca di alternative ai monopoli digitali americani, oltre che di regole più stringenti contro gli abusi. In alcuni paesi emergenti come l’India si fa strada l’idea che debbano essere regolati proprio come delle utility, dei servizi pubblici essenziali.
Chi ne esce come un vincitore è Xi Jinping. Anzitutto perché la Cina resta un mercato chiuso ai grandi social americani, quindi non ha subito conseguenze del blackout. Poi perché il presidente cinese sta conducendo una sua campagna per moralizzare l’uso dei social, e perfino dei videogame: tra i suoi obiettivi figura anche la protezione della gioventù cinese. Questo rientra in una offensiva più generale lanciata da molti mesi da Pechino per ridimensionare il potere dei colossi digitali cinesi: in un certo senso l’avanguardia dell’antitrust si è spostata dall’Occidente alla Cina.
La tremenda giornata di lunedì 4 ottobre si è chiusa con questo commento sull’account Twitter di “Dio” (un celebre autore satirico con milioni di follower): «Instagram e Facebook non stanno funzionando. Come la democrazia e la società».