La Stampa, 5 ottobre 2021
Intervista a Didier Deschamps
Inviato a Clairefontaine
Affacciati sul “terrain Michel Platini” con il sole e il vento che entrano nella saletta dalle ampie vetrate, Didier Deschamps racconta come ha rimesso in piedi la Francia dopo quei terribili dieci minuti che sono costati ai campioni del mondo l’eliminazione con la Svizzera agli ottavi degli Europei. Clairefontaine sta a Le Foot come l’ENA alla politica francese: là si forma la classe dirigente del Paese, qui spalmati su nove campi i calciatori e le calciatrici del futuro. Dentro la foresta di Rambouillet, a sud di Parigi, prende forma il sistema, ci sono le ragazze in divisa bleus e anche Mbappè: allons enfant, la causa è comune. Giovedì va in scena la semifinale di Nations League e Francia-Belgio si gioca a Torino, il luogo del cuore del ct.
Ne riparleremo, prima però: Deschamps, quante volte ha rivisto la partita con la Svizzera persa ai rigori dopo che all’82’ vincevate 3-1?
«Pochissime. Mi sono già preso ogni colpa, ma la verità è che se avessimo fatto anche tutto diversamente sarebbe andata a finire comunque così. È il mistero del calcio. Inutile cercare giustificazioni, diventano subito scuse. Inutili».
È la delusione più grande della sua carriera?
«Eravamo, cioè siamo ancora campioni del mondo, e da noi si aspettavano tanto. Gestire la vittoria mondiale non è stato facile, pensavo di andare più lontano. Quindi, sì, la delusione è enorme. Se la gioca con la sconfitta in finale in casa con il Portogallo a Euro2016».
Che medicina è la Nations League?
«Non lenisce la delusione, ma per arrivare in semifinale abbiamo vinto in Portogallo. Quindi non minimizziamola, poi mettetela pure dove volete nelle bacheche».
Ci siamo: Torino. Basta la parola?
«Torno a casa. Ho passato sei anni bellissimi, dove ho trovato tutte quello che volevo. L’organizzazione, la cultura della vittoria, ogni uomo al proprio posto dal magazziniere al presidente ma anche uno spirito che ci faceva sentire una famiglia. Un sentimento del benessere della vita quotidiana unito alla ricerca del risultato. Era un momento felice, dove abbiamo vinto tanto con Lippi e il trio Moggi, Giraudo e Bettega. Forse ho sbagliato ad andarmene così presto».
Le manca l’Italia?
«Una parte di me sarà sempre italiana, la mia vita è stata segnata dal passaggio da voi. Non faccio le stesse cose di 20 anni fa, mi sono adattato ai tempi, ma quell’esperienza ha inciso molto».
Sorpreso dal ritorno di Allegri alla Juventus?
«No, non mi sorprende più niente. E poi mi dà fastidio quando gli allenatori di club parlano della nazionale senza conoscere la situazione, quindi vale anche il contrario».
Dalla Juventus è passato Pogba: se l’aspettava a questo livello ora che è a Manchester oppure può crescere ancora?
«Paul è diventato grande, è un leader comunicativo, non ha bisogno di tante parole per farlo. Ora lega le generazioni e se mi dite che a volte è un po’ egoista, vi rispondo che ogni giocatore ha una parte egoista, ma lui pensa sempre in modo collettivo. Per me è un mediano completo anche se è più attirato dalla parte offensiva, ma andate a vedere quanti ne ha recuperati nell’ultima gara con la Finlandia, diciassette. Sa sdoppiarsi, basta non chiedergli di farlo ogni tre giorni».
Mbappé ha detto che avrebbe voluto andare a Madrid questa estate e che invece è stato “costretto” a restare a Parigi. Gli farebbe bene lasciare il Psg?
«Sono scelte importanti che l’anno prossimo potrà fare da solo. Lui continua a crescere, anche nelle difficoltà. Ha 50 presenze in Nazionale e solo 22 anni, un’esperienza allucinante. Fa parte di un’elite che non ha bisogno degli altri per far vincere la squadra eppure sa di dover dipendere dai compagni. Ma da lui si aspettano sempre di più, non è mai abbastanza quello che fa. È un mondo a parte il suo».
Giocare con Messi lo aiuterà?
«Lui, Messi e Neymar: talento più talento più talento. È facile, ma serve un’alchimia tattica. Io ci ho provato con Mbappé, Griezmann e Benzema e ha funzionato solo sul piano offensivo. Ma sto lavorando per migliorare, dei 23 del mondiale ne sono rimasti otto».
Le scade il contratto dopo il Mondiale 2022: che cosa c’è nel futuro?
«Dopo gli Europei ho staccato e riflettuto molto, ho deciso di continuare perché ne sono convinto. Sono qui da nove anni, è scritto che dopo il Qatar cambierò, e sarà un’altra gran bella vita».
Le succederà Zidane?
«Sappiamo l’immagine che ha Zizou. Ma ci sono tanti altri bravi allenatori per i quali la Nazionale, se non un obiettivo, è un’opportunità».
A proposito di Mondiale: che cosa ne pensa del progetto Fifa di giocarlo ogni due anni?
«Non è il ct della Francia che decide, ma per me significa banalizzare l’importanza del torneo. Passeranno sopra gli interessi dei giocatori? Ognuno fa i propri e non coincidono mai. Ma la mia volontà conta poco, deciderà la maggioranza».
Quanto è cambiato il calcio italiano?
«Dovevate farlo, siete passati attraverso uno tsunami. Ma resta sempre fondamentale la cura difensiva. Avete meritato di vincere l’Europeo, chi ci riesce è sempre il più forte. L’ho scritto anche a Mancini».
Come fa a essere così ricca di talenti la Francia?
«A 17-18 anni un giovane è titolare in Ligue 1 anche per la situazione economica dei club. Così a 20 è pronto per andare all’estero dove si fidano della nostra formazione».
Attaccare è divertimento, difendere è sacrificio: è vero?
«Definizione riduttiva. A tutti piace attaccare, ma in una squadra non ci possono essere 11 architetti. Servono anche i muratori. La mia parte italiana viene sempre fuori: costruire una squadra per creare problemi all’avversario».
Il calcio le ha dato tanto, ma che cosa le ha tolto?
«Nulla. Ho fatto di tutto per arrivare il più in alto possibile, ma sono state scelte. Professionali e di vita. Non sacrifici. Il calcio è una passione, è arte, ma non un mestiere. Lavorare è alzarsi alle sette del mattino per mantenere una famiglia. Non ho mai lavorato in vita mia, per carità».