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 2021  ottobre 05 Martedì calendario

Il punto sull’infinito

Digitando la parola «infinito» su Google, si ottengono decine di milioni di risultati, molti dei quali rimandano fin da subito alla famosa poesia di Leopardi, intitolata appunto L’infinito. Peccato che Leopardi stesso non credesse all’esistenza dell’infinito, e dicesse esplicitamente nello Zibaldone: «Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l’immaginazione è capace dell’infinito, ma solo dell’indefinito». E aggiungesse: «Circa le sensazioni che piacciono per il solo indefinito, puoi vedere il mio idillio sull’infinito».
D’altronde, basta leggere la sua poesia per accorgersi che dell’infinito il poeta non parla per nulla, e che gioca sull’equivoco delle parole: un conto è parlare di infinito, e un altro di indefinito. L’equivoco non è stato cavalcato soltanto da Leopardi stesso, ma anche da molti artisti: le opere infatti tanto più piacciono, quanto più sono indefinite, perché rimangono più libere all’interpretazione del fruitore.
Più in generale, tutte le aree della cultura usano a piene mani il concetto di infinito, ciascuna intendendolo a suo modo, e in maniera diversa dagli altri. Per svelare questa commedia degli equivoci ho scritto lo scorso anno, durante il primo lockdown, un libro intitolato Ritratti dell’infinito, cercando di dipanare l’aggrovigliata matassa dei significati del termine «infinito», usato e abusato da artisti e scrittori, teologi e filosofi, scienziati e matematici.
E anche dall’uomo comune, che quando parla di infinito intende più modestamente qualcosa di immenso, di cui è difficile o impossibile quantificare precisamente la grandezza. Ad esempio, quando diciamo con gratitudine «infinite grazie», o parliamo di «infinito amore», non intendiamo certo queste espressioni in senso letterale, e ci limitiamo a suggerire l’idea di immensità.
I poeti hanno usato molte metafore per l’infinito, a partire dalle stelle del cielo. Le quali però sono facilmente quantificabili, almeno come ordine di grandezza: ce ne sono cento miliardi in una galassia media, come la nostra Via Lattea, e ci sono cento miliardi di galassie. In totale, le stelle dell’universo sono dunque circa diecimila miliardi di miliardi, che è un numero molto grande, ma composto soltanto di 22 cifre: più o meno, come due numeri di telefono con prefisso.
Archimede provò a fare meglio, domandandosi quanti granelli di sabbia ci sarebbero voluti per riempire l’intero universo conosciuto. Fece il calcolo paragonando i volumi della sfera delle Stelle Fisse e di un granello di sabbia, usando una formula da lui stesso scoperta, e ottenne un numero composto di 60 cifre: enorme, ma che si poteva pur sempre scrivere in una sola riga.
Borges provò a calcolare quanti libri di 400 pagine, ciascuna di 40 righe, ciascuna di 40 caratteri, si potrebbero scrivere in un alfabeto di 25 simboli. Questa volta il risultato fu stratosferico, e difficile da immaginare: un numero con milioni di cifre, ma pur sempre finito. Questo fa capire che, come non si arriva sulla Luna salendo su alberi sempre più alti, non si arriva all’infinito pensando numeri sempre più grandi.
In greco l’infinito si chiamava ápeiron, che significava illimitato o interminabile, ma nell’Ottocento il matematico Riemann fece notare che la superficie di una sfera è sicuramente finita, ma illimitata: un essere che vivesse sopra di essa potrebbe girare in tondo in qualunque direzione, senza mai incontrare ostacoli. Nel sanscrito, che è un linguaggio più ricco del greco, ci sono parole che distinguono varie possibilità dell’illimitato o dell’interminabile: ananta per ciò che inizia ma non finisce (come i numeri interi positivi), anadi per ciò che non inizia ma finisce (come i numeri interi negativi), nitya per ciò che non inizia e non finisce (come i numeri interi, positivi o negativi).
E sono stati proprio gli Indiani, e precisamente Baudhayana nell’800 prima della nostra era, a scoprire il primo vero infinito matematico: il rapporto tra due grandezze incommensurabili, come la diagonale e il lato del quadrato. In altre parole, non esiste nessuna unità di misura che sia in grado di stare un numero esatto di volte sia nella diagonale, sia nel lato: qualunque metro che misura esattamente la diagonale non misura esattamente il lato, e viceversa. Noi associamo campanilisticamente questa scoperta al nome di Pitagora, che però venne tre secoli dopo Baudhayana.
Ancora prima gli Egizi avevano scoperto il famoso paradosso che noi attribuiamo all’eleatico Zenone, venuto millenni dopo di loro: il fatto, cioè, che non si può esaurire una torta mangiandone una metà, e poi una metà della metà, e poi una metà della metà della metà, e così via. L’occhio di Horus, che a Torino possiamo vedere rappresentato in molti dei reperti del Museo Egizio, è una tipica raffigurazione di questo processo inesauribile, oggi usato comunemente dai matematici nelle serie infinite convergenti del calcolo infinitesimale.
Nell’800 infine Georg Cantor ha dimostrato che ci sono molti infiniti relativi, ma non esiste un infinito assoluto. Detto altrimenti, il regno della matematica è pieno di infiniti, mentre quello della teologia è vuoto di Dio. —