Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2021
Scuola, abbandoni record causa Covid
Mantenere il più a lungo e per il maggior numero di alunni possibili la didattica in presenza al 100% dopo 19 mesi di pandemia è un obiettivo imprescindibile per la scuola italiana. Insieme al recupero dei gap formativi generati dalla Dad. A dirlo sono le ultime statistiche internazionali. Sia perché – come certifica l’Unesco – da settembre 2020 a giugno 2021, siamo tra i Paesi che hanno chiuso le scuole, in tutto o in parte, più di tutti: ben 38 settimane (come la Germania), contro le 12 della Francia o le 15 della Spagna. Sia perché, nel frattempo, è cresciuto anche il numero di giovani che non studiano e non lavorano: dal 24,4% del 2019 al 25,5% del 2020. Mentre i nostri cugini d’oltralpe sono rimasti stabili al 17,5%; gli spagnoli sono saliti dal 19,2% al 22%, i tedeschi dall’8,2 al 9,4%, contro una media Ocse che è aumentata dal 14,4% al 16,1 per cento. E ancora non si sa come è andato il 2021.
I problemi storici
Con l’emergenza sanitaria la scuola italiana si è trovata ad affrontare nodi storici irrisolti. A partire da quel 58% di insegnanti over 50, ai vertici dell’area Ocse, dove la media è del 38% alla secondaria e del 33% alla primaria. La carriera è inesistente e gli stipendi sono tra i più bassi tanto all’inizio quanto alla fine dell’esperienza in cattedra. Ciò, oltre a frenare qualsiasi slancio “meritocratico”, disincentiva l’aggiornamento professionale e la formazione in servizio, specie sul fronte delle nuove tecnologie digitali. E così le lezioni da remoto, con gli istituti chiusi, quasi sempre si sono trasformate in una ripetizione della spiegazione frontale. Complici edifici vecchi e poco funzionali alle innovazioni. Basti pensare che la spesa in edilizia scolastica, da noi rappresenta l’1% della spesa complessiva in istruzione, contro una media Ocse dell’8%, la stessa percentuale di Germania e Francia. In Spagna è del 3 per cento.
Il deficit di competenze
I risultati si sono visti lo scorso luglio, con una debacle degli studenti sul fronte degli apprendimenti, certificata dall’Invalsi: in quinta superiore il 44% degli alunni non arriva al livello minimo in italiano, il 51% in matematica, con una caduta generalizzata in tutt’Italia. Eppure, solo lo scorso anno, gli investimenti non sono mancati, come riconosce Francesca Borgonovi, economista all’Ocse, ed esperta di education. Dall’arrivo del governo Draghi circa 4 miliardi per consentire la riapertura lo scorso settembre. «I problemi della scuola italiana non vengono con il Covid, ma sono più strutturali – sottolinea Borgonovi -. In Corea, ad esempio, i docenti sono pagati di più e c’è la possibilità di fare carriera, e hanno un maggior status sociale rispetto che in Italia. Il digitale e l’innovazione anche edilizia possono essere la strada per cambiare in profondità la nostra scuola. Ma per far ciò occorre maggiore formazione».
Laureati e orientamento
In Italia c’è una bassa quota di laureati: «Dal 2010 al 2020 la quota di chi ha una laurea tra i 25 e i 34enni è passata dal 21 al 29% – aggiunge l’esperta Ocse -. In Germania si è passati dal 26 al 35%, ma qui il sistema terziario è più vasto e coinvolge anche l’offerta professionalizzante Vet (la nostra istruzione tecnica, ndr). In Francia si è passati dal 43 al 49%, in Spagna dal 40 al 47 per cento». Alla base c’è anche uno scarso orientamento scolastico. Qui gli ultimi dati sono dell’Indagine Pisa 2018 ed evidenziano come, in Italia, l’11% di studenti in scuole svantaggiate e il 13% in scuole socio-economicamente avvantaggiate hanno dichiarato di avere personale dedicato a fornire orientamento. La media Ocse è rispettivamente 66% e 61%. «Anche se queste cifre non riflettono altre forme di orientamento di cui possono beneficiare gli studenti, il divario rispetto agli altri paesi è molto pronunciato», ha chiosato Borgonovi.
Il problema si ritrova anche nel mondo del lavoro. La partecipazione alla formazione continua in ambito lavorativo (25-64enni) era del 42%, ed è scesa nei mesi del Covid. In Germania questa percentuale è del 56%, in Francia del 51 per cento. Per non parlare del terzo posto in Europa per disoccupazione giovanile che ci fa compagnia da prima del Covid.