il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2021
Le idee assurde dei modelli economici
Durante l’audizione al Congresso svoltasi nell’ottobre 2008 l’allora governatore della Federal reserve Alan Greenspan ammise di aver trovato un “difetto” nella sua “ideologia”, nel modo con il quale egli riteneva che le persone affrontassero la realtà : “Questo è proprio il motivo per cui sono rimasto scioccato, perché sono andato avanti per 40 anni con considerevoli prove che stava funzionando eccezionalmente bene”. Nel 2016, il futuro premio Nobel per l’economia Paul Romer in un lavoro intitolato Il problema con la macroeconomia scrisse una dura critica non solo su alcuni principali aspetti tecnici del paradigma dominante, ma anche su come la disciplina economica si fosse chiusa in sé stessa, refrattaria alle critiche e impermeabile ai fatti: “La situazione ora è peggiorata. I modelli macro fanno ipotesi che non sono più credibili e molto più opache”.
Proprio la fondatezza dei modelli, il grado di realismo che essi assumono, sono da tempo oggetto di critiche. Se per gran parte della disciplina pare non esser un problema così rilevante, fedele al postulato di Friedman sull’irrealismo delle assunzioni – secondo cui la bontà di un modello si misura sulla sua capacità previsionale e non sul grado di aderenza alla realtà – le cose si complicano quando i modelli sono impiegati nella pratica per scopi di politica economica: se basati su fondamenti dubbi o totalmente irreali potrebbero condurre a risultati diametralmente opposti a quelli ipotizzati, come visto nella crisi finanziaria del 2007-2008 o in quella dell’euro.
Un lavoro pubblicato la settimana scorsa da J. B. Rudd, uno stimato economista della Fed che dal 1999 lavora per il Consiglio dei Governatori della banca centrale Usa, ha suscitato una notevole attenzione perché solleva più di un dubbio su uno dei totem che fondano l’intero impianto teorico della macroeconomia “mainstream”: quello delle aspettative di inflazione. Secondo Rudd “l’economia mainstream è piena di idee che ‘tutti sanno’ essere vere, ma che in realtà sono assurdità”. Tra queste include le aspettative di inflazione, che a partire dagli anni 70 hanno assunto un ruolo fondamentale per spiegare come si determina l’inflazione e come si possono produrre situazioni di stagflazione (forte aumento dei prezzi), che erano inconcepibili per i modelli utilizzati in precedenza. La critica riguarda sia l’impostazione teorica che ne è alla base sia la rilevanza empirica.
Che qualcosa non andasse riguardo a come queste aspettative influiscano sull’andamento attuale dei prezzi era però abbastanza evidente anche prima del paper di Rudd. Davvero crediamo che basti la credibilità della banca centrale perché i consumatori possano formarsi un’idea di quella che sarà l’inflazione tra due o tre anni? E crediamo che il comportamento razionale sia quello di anticipare il rialzo dei prezzi in futuro aumentando i consumi adesso o lasciando il posto di lavoro? Come se andassimo al cinema due o tre volte in più oggi perché pensiamo che in futuro il prezzo del biglietto sarà più elevato. O che, con milioni di disoccupati, chi è occupato lasci il suo posto per cercarne un altro con uno stipendio migliore per compensare il possibile aumento del costo della vita.
Rudd amplia il quadro e fornisce una serie di incoerenze nel modo col quale le aspettative vengono costruite, le difficoltà di averne delle conferme empiriche e suggerisce che se mettiamo da parte le attese di inflazione esiste ugualmente un modo alternativo con cui interpretare l’andamento dei prezzi. L’economista della Fed evidenzia come ci sia una relazione abbastanza solida di lungo termine tra l’andamento dei prezzi e l’andamento dei costi di produzione, del costo del lavoro in particolare. Guardare a come si evolve il costo del lavoro per unità di prodotto, a cosa lo determina, a come le imprese reagiscono ad aumenti attuali di costo, potrebbe avere efficacia predittiva maggiore.
Certo si può osservare che anche il ragionamento presentato da Rudd non è esente da critiche. Se le aspettative di inflazione non incidono, o incidono solo marginalmente, nella dinamica dell’inflazione degli Stati Uniti, non è detto che questo ragionamento valga in assoluto per tutte le economie, e in particolare per le economie emergenti, le cui valute sono molto sensibili al sentiment del mercato e i prezzi al consumo dipendono molto più dai prezzi dei beni importati. Ma resta un punto fondamentale della critica, che riguarda l’eccessivo grado di astrazione dei modelli macroeconomici. Ci si chiede spesso perché gli economisti non sono stati in grado di prevedere un evento. Cercare il massimo grado di realismo nei modelli usati potrebbe essere un primo passo.