Il Messaggero, 4 ottobre 2021
Tradurre i geroglifici con l’Intelligenza artificiale
Lo studio dei geroglifici, i segni che compongono il sistema di scrittura degli antichi Egizi, ebbe inizio dopo il 1799, in seguito alla scoperta della Stele di Rosetta, testo risalente a un decreto del faraone Tolomeo V Epifane, composto da tre scritture differenti: demotico, greco e geroglifico. È seguito un lavoro intellettuale lungo secoli per tradurre quei simboli in frasi, che ancora oggi continuano a coinvolgere e appassionare studiosi di tutto il mondo, che cercano nel geroglifico la comprensione di un passato misterioso e non sempre decifrabile. Oggi, la punta più avanzata della tecnologia, l’intelligenza artificiale, promette di semplificare il lavoro di archeologi e storici dell’antico Egitto, grazie allo studio di Andrea Barucci, fisico del Cnr, che insieme alla collega Costanza Cucci, e alla collaborazione dell’egittologo Massimiliano Franci del Centro Studi Camnes, ha dimostrato come le reti neurali di apprendimento automatico possano tradurre i geroglifici nella nostra lingua.
Oggi qual è il metodo per la trascrizione dei geroglifici?
«Non sono applicati sistemi che automaticamente riconoscono i simboli da interpretare e da tradurre in parola. Gli egittologi leggono il papiro, il documento, con un metodo tradizionale di lettura e interpretazione. Il nostro progetto, insieme al sistema inventato da Google, è il solo metodo che usa l’intelligenza artificiale per la traduzione. In contemporanea al nostro studio, citato nella rivista scientifica IEEE Access, Google ha sviluppato un sistema simile, chiamato Fabricius in latino, ma quando loro hanno annunciato la fase sperimentale, noi la stavamo già facendo. Possiamo dire che siamo competitor».
Il fatto di aver anticipato un colosso del tech, vi rende orgogliosi?
«Enorme orgoglio, ma stavo scherzando a proposito della competizione. In realtà, come ricercatori siamo rimasti molto contenti perché abbiamo capito che è un tema di interesse ampio. Con Google sarebbe una sfida persa in partenza, perché loro hanno creato e detengono l’intelligenza artificiale».
Qual è stato il percorso che ha portato all’applicazione del deep learning e dell’intelligenza artificiale a uno mondo così antico?
«Io mi occupo di un ramo della medicina che si chiama radiomica, che usa l’intelligenza artificiale per estrarre informazioni dalle immagini per fare delle diagnosi su tumori o malattie complesse. Essendo amico di Massimilano Franci, egittologo, un giorno abbiamo pensato di applicare quel metodo allo studio di geroglifici. E ha funzionato subito».
Come avete allenato le macchine al riconoscimento?
«Le macchine di deep learning sono delle reti neurali che richiedono una grande mole di dati, cioè di immagini; circa tre anni fa, grazie al contributo prezioso di tre laureandi in ingegneria, abbiamo creato un enorme data-set di immagini di geroglifici, circa seimila, fotografando papiri, monumenti, documenti che sono stati digitalizzati e catalogati. Dopodiché le foto sono state mostrate alle reti che apprendono e, attraverso un sistema di learning, sono state incentivate a migliorare l’obiettivo di volta in volta, assegnando loro un vantaggio o una penalizzazione. Le macchine hanno visto centinaia di migliaia di volte le immagini, con colori diversi, ruotate, incomplete, cioè tutte le variabili possibili. I laureandi hanno usato reti che si usano abitualmente per riconoscere quadri o pedoni, ma hanno realizzato una rete nuova, Glyphnet, più adatta per il nostro studio».
Come funziona nello specifico il vostro metodo?
«Qualunque immagine di geroglifico digitalizzata viene passata al software che restituisce il significato, indicando anche la percentuale di accuratezza. La macchina che lavora su reti convoluzionali riesce a individuare ogni simbolo su una stele che magari ne contiene mille. Li riconosce uno ad uno e stiamo lavorando anche al riconoscimento della mano dello scriba, cioè di colui che ha scritto il papiro. La macchina potrebbe comprendere se due simboli di papiri diversi si assomigliano. È come riconoscere la mano di un pittore analizzando un quadro».
Che tipo di aiuto potrebbe costituire per uno studioso di archeologia?
«Per gli egittologi è un elemento molto importante per individuare il periodo storico di riferimento, perché i geroglifici contengono molte informazioni, hanno differenti colori e tanti scriba si divertivano anche a scrivere rebus. E poi la digitalizzazione dei geroglifici consente di averli in un formato leggibile e analizzabile, è ben diverso da una fotografia».
Il vostro sistema riesce a decifrare anche simboli con parti mancanti?
«Sì, la macchina può suggerire il geroglifico corretto. Questa parte la stiamo affrontando ora, ma non posso dire molto prima della conclusione della prossima pubblicazione, speriamo il prossimo anno».
Invece la traduzione automatica sarà possibile?
«Richiede delle reti neurali diverse, come quelle usate da Google Translate, che tengono conto del fatto che gli oggetti non sono scollegati tra loro, ma sono connessi. La difficoltà è nel reperire un data-set di frasi egiziane tradotte sulla base dei geroglifici e addestrare la macchina per consentirle di imparare da sola la sintassi. È un obiettivo raggiungibile dal punto di vista tecnologico».
Potrebbe essere esteso anche allo studio di altre lingue dell’antichità, come il latino?
«Assolutamente sì. Infatti parlando con altri archeologi, ho visto molto interesse verso il nostro metodo, che resta lo stesso per ogni lingua, che sia il giapponese, il latino o qualsiasi altra del passato. Sicuramente è un lavoro di ricerca imponente».
La macchina fa il lavoro sporco, ma resta centrale il ruolo dello studioso?
«Il ruolo dell’uomo è sempre centrale. Lavorando in ambito medicale, oggi c’è un ampio dibattito sul futuro del medico in rapporto all’impiego di nuove tecnologie, ma queste restano sempre di supporto all’intelligenza umana».