la Repubblica, 4 ottobre 2021
La crisi dei tulipani
«Dillo con un fiore». Certo, se riesco a trovarlo e me lo posso permettere.
La crisi energetica che sta sconvolgendo l’economia del nostro pianeta ha fatto una nuova vittima: le orchidee, i tulipani e le rose dei Paesi Bassi, ovvero il più grande esportatore di fiori al mondo.
Il caro-energia ha spinto i costi di gestione delle serre olandesi a livelli così alti che molti produttori hanno deciso di spegnere la luce, riducendo la produzione e aumentando il prezzo dei bouquet che sopravviveranno.
È uno degli effetti più inaspettati, scioccanti e curiosi dell’impennata dei prezzi del gas naturale e dell’elettricità ma è anche un esempio lampante di come la carenza di materie prime possa rapidamente ridisegnare le mappe internazionali del potere economico.
Ad approfittare della disgrazia olandese saranno infatti i produttori etiopi, che beneficiano di altri costi più bassi, quali per esempio la manodopera e il trasporto, e, secondo Bloomberg, si stanno già preparando a riempire gli aerei della Ethiopian Airlines di profumatissime esportazioni (e a essere profumatamente ricompensati da noi europei).
Fin qui, tutto bene. Stiamo assistendo a una classica storia di darwinismo capitalistico: chi è più efficiente vince. Ma attenzione a un altro topos dell’economia di mercato: le conseguenze non volute.
La crisi dei tulipani potrebbe avere ripercussioni gravi sui portafogli dei cittadini dell’Unione Europea – anche quelli che non amano i fiori, visto che le aziende agricole olandesi sono seconde solo a quelle spagnole nel volume di esportazioni di frutta e verdura al resto dell’Ue.
È stato, per tanto tempo, un motivo d’orgoglio per un Paese così piccolo che era riuscito a creare un’industria miliardaria grazie all’altissimo rendimento e alla superiore tecnologia dei suoi campi coperti. Oggi è un problema che potrebbe colpire milioni di persone, costrette a pagare di più per pomodori, peperoni e cetrioli e altri generi alimentari che hanno sempre considerato essenziali, basilari e, soprattutto, economici.
Ma se il costo dell’energia, che rappresenta circa un terzo del costo delle colture in serra, sale del 400% in pochi mesi, i prezzi non possono rimanere gli stessi.
È possibile che, come con i fiori, un intraprendente paese non-europeo apra la sua bancarella nel nostro mercato comune e riempia il vuoto lasciato dai produttori tradizionali. Ma le tensioni annose della catena di approvvigionamento agricolo – e il protezionismo insito nell’Ue – rendono improbabile l’arrivo di un cavaliere senza macchia con le bisacce piene di pomodori.
La realtà è che dovremo pagare di più per il nostro cibo, in aggiunta alle bollette più salate, al rincaro della benzina e alla scomparsa di qualche bene che davamo ormai per scontato (occhio ai prodotti fatti in Cina, dove la carenza di energia è allarmante). A livello microeconomico, ciò significa meno denaro a disposizione dei consumatori per comprare prodotti di più alto valore e supportare la ripresa. A livello macroeconomico, questa crisi aumenterà le paure di chi pensa che la fiammata di inflazione degli ultimi mesi non sia temporanea, checché ne dicano i banchieri centrali.
Ma è a livello sociale che i black-out delle serre olandesi dovrebbero preoccupare governi d’ogni colore politico. Perché dopo quasi due anni di pandemia, lockdown e pochi viaggi, l’ultima cosa di cui i cittadini europei hanno bisogno è un balzo repentino nei prezzi di beni e servizi su cui fanno affidamento da sempre.
Se dovessimo dirlo con i fiori, dovremmo comprare margherite (il fiore della pazienza) e bucaneve (speranza) ed evitare la lavanda (sfiducia).