La Lettura, 3 ottobre 2021
Le città in estinzione
«La demografia si muove lentamente, la politica ha bisogno di risposte e obiettivi subito, perché per esempio si vota oggi». Gian Carlo Blangiardo, il presidente dell’Istat, ha colto come sempre nel segno: politica e demografia sembrano destinate a non incontrarsi. Questione di tempi. Drammatica divaricazione, perché quello demografico è il problema di una popolazione, la nostra, destinata, se non si interviene, alla sparizione.
Esagerazioni? Oggi votano le più grandi città italiane. Sul tema, non un sussurro in campagna elettorale. Si può essere tentati dall’immaginare che succeda perché le città se la cavano bene e tutto il problema demografico consista nei piccoli comuni che si spopolano. Nelle città non si dà, dunque, questione demografica? Per verificare abbiamo preso le 20 città italiane più popolose (da Roma, la prima, a Modena, la ventesima con 188 mila abitanti) e vi abbiamo aggiunto i tre capoluoghi di regione con oltre 150 mila abitanti: Perugia, Reggio Calabria e Cagliari. Il periodo di osservazione scelto va dal 1° gennaio 2018 al 31 maggio di quest’anno (ultimi dati disponibili): 3 anni e 5 mesi. Avvertenza. A ottobre 2018 l’Istat ha svolto il primo censimento permanente annuale – iniziativa da applausi – su un campione vastissimo di famiglie (oltre due milioni). I dati, usciti quest’anno, hanno ridimensionato la popolazione italiana – ne parleremo. Intanto procediamo.
La popolazione italiana passa nel periodo considerato da 60.483.973 a 59.126.079 perdendo 1.357.894 abitanti, pari al 22,5 per 1.000 della popolazione iniziale. Le 23 città considerate passano da 11.379.564 a 11.106.026, perdendo 273.538 abitanti, pari al 24 per mille della loro popolazione iniziale. Dunque la recessione demografica è perfino più grave nell’insieme delle più grandi città italiane. Scendendo dal generale al particolare si scopre che delle 23 città 6 non perdono abitanti ma ne guadagnano. Sono, a scendere geograficamente: Milano, Verona, Parma, Modena, Bologna e Prato. E già si vede che non c’è una sola città del Mezzogiorno che aumenti gli abitanti. Delle altre 17 grandi città che invece perdono abitanti la graduatoria dalla peggiore alla meno peggio è la seguente: Catania, Firenze, Reggio Calabria, Palermo, Genova, Torino, Messina, Bari, Cagliari, Roma, Napoli, Venezia, Trieste, Perugia, Padova, Brescia.
A questo punto facciamo una specie di gioco (e insieme una piccola provocazione) – seguiranno i chiarimenti necessari. Gioco che sta tutto in questa domanda: perdendo abitanti al ritmo di quanti ne hanno persi tra il 1° gennaio 2018 e il 31 maggio 2021, quanti anni rimarrebbero ancora da (soprav)vivere alle 17 grandi città che hanno un bilancio demografico negativo?
Eccoli, indicati tra parentesi: Catania (60 anni ancora di sopravvivenza), Firenze (61), Taranto (70), Reggio Calabria (74), Palermo (77), Torino (79), Genova (79), Messina (82), Bari (99), Cagliari (103), Roma (104), Napoli (119), Venezia (133), Trieste (161), Perugia (242), Padova (246), Brescia (324). Dunque delle 23 maggiori città italiane a questi ritmi 9 hanno una speranza di vita addirittura inferiore al secolo. Tra queste città ci sono Catania, Firenze, Palermo, Torino, Genova e Bari; sei delle dieci più grandi città d’Italia. Non bastasse: la prima e la terza città d’Italia, Roma e Napoli, hanno sopravvivenze appena sopra il secolo. In cifre assolute nel periodo considerato Roma perde una città di quasi 100 mila abitanti, una di quasi 40 mila la perde Torino, di 30 mila Palermo, di quasi 30 mila Napoli, di 25 mila Genova, di oltre 20 mila Firenze, di quasi 20 mila Catania. Uno sbriciolamento.
Stupisce anche altro. Brescia è stata con Bergamo la città con più morti di Covid, ma è quella che perde meno tra le città con bilancio demografico negativo. Città a loro volta molto colpite dal Covid come Milano, Verona, Bologna, Parma e Modena, aumentano di abitanti invece di perderne. Milano aumenta di una città di oltre 30 mila abitanti mentre Roma ne perde una di quasi 100 mila. La divaricazione è evidente. Come lo è con Torino e Genova, decisamente le città del Nord in più grave recessione demografica, così come Firenze lo è del centro.
Lo abbiamo premesso, è una specie di gioco e come tale va considerato. Per due motivi. Intanto nessuno ci assicura che così com’è stato in questo periodo le città continueranno nel futuro. Si tratta di proiezioni, e delle proiezioni è buona regola diffidare. E poi, secondo motivo, il periodo prescelto è il più disastrato in assoluto: c’è stata la pandemia, c’è stato il censimento del 2018 che, come abbiamo anticipato, ha ridimensionato la popolazione italiana e quella delle nostre città. Dovevamo proprio scegliere un periodo così particolare? Particolare o meno, è l’ultimo periodo. Ed è decisamente interessante guardare al futuro con gli occhi del presente immediato (sarà pure un gioco, ma è pur sempre sulla realtà che si fonda). Senza dimenticare che possiamo operare le opportune correzioni. Vediamole.
La pandemia si è resa responsabile fino al 31 maggio 2021 di 124 mila morti. Considerando che le 23 città rappresentano il 18,8% della popolazione italiana è realistico assumere come morti di Covid in queste città il 18,8% dei 124 mila morti di Covid a livello nazionale, pari a poco più di 23 mila morti. Morti che non ci sarebbero stati in anni pre-Covid.
Il censimento ha poi accertato che nelle 23 città considerate risultavano come residenti 99 mila abitanti inesistenti. Per cui, li ha cassati. Questa sopravvalutazione dei residenti si è prodotta nei sette anni intercorrenti tra il censimento del 2011 (ultimo censimento decennale) e il censimento del 2018 (primo censimento annuale), ragione per cui nei 3 anni e 5 mesi del nostro periodo si possono ragionevolmente stimare 48 mila abitanti in più che sono stati cancellati: un’altra perdita di abitanti che non ci sarebbe stata in anni precedenti al censimento del 2018. Sommando abbiamo 71 mila abitanti persi dalle 23 maggiori città italiane per motivi chiamiamoli pure eccezionali.
Possiamo così stimare una perdita di abitanti tra il 1° gennaio 2018 e il 31 maggio 2021, dovuta alla normale dinamica demografica di queste città, non in 273 mila bensì in 202 mila abitanti. Anche messa così la cosa la perdita avviene a una velocità di 5,2 abitanti in meno all’anno ogni 1.000, che si traduce in una speranza di vita delle 23 città (comprese quelle che aumentano gli abitanti) che con le correzioni apportate arriva a 192 anni – comunque, sempre meno di due secoli di vita.
Abbiamo considerato gli aggiustamenti apportati dal censimento come eccezionali, ma non lo sono veramente. La popolazione residente tende sempre ad essere sovrastimata perché i comuni sono solleciti a registrare i nuovi residenti e più restii a cancellare quelli che se ne vanno. Così, i censimenti ridimensionano sempre la popolazione e i ridimensionamenti corrispondono a residenti che, semplicemente, non esistono. Dunque il solo motivo eccezionale che ha avuto un peso sulla perdita di popolazione è la pandemia, responsabile di 23 mila morti che non ci sarebbero stati in periodi normali e tolti i quali la perdita delle 23 città passa da 273 mila a 250 mila, che corrispondono a una decrescita medio-annua di 6,6 abitanti ogni 1.000 e a una speranza di sopravvivenza complessiva di un secolo e mezzo. Idem per l’Italia. Ma anche per questa strada si arriva alla fine del secolo con una popolazione ridotta a poco più della metà. «Siamo un popolo potenziale di 32 milioni di abitanti», dice il presidente dell’Istat. A fermarci alla fine del secolo è proprio così. Ad andare ulteriormente avanti chissà.
Dopo quelle dolenti (ma la sopravvivenza delle città, tolti i morti di Covid, aumenta di alcuni anni), qualche nota che lo è meno. Milano, Verona, Bologna, Parma, Modena e Prato a stare all’oggi non hanno di che preoccuparsi. E ciò per due motivi. Intanto perché in queste città – e la cosa vale soprattutto per quelle dell’Emilia, tanto che si potrebbe parlare di un «modello Emilia» – è più alto che altrove il saldo migratorio positivo, con l’esterno e con l’interno, che tende a compensare un movimento naturale – nati-morti – ch’è anche qui decisamente negativo (proprio non si nasce, in Italia, nei piccoli come nei grandi centri). E poi perché le correzioni del censimento in queste città sono, a differenza di quel che avviene nelle altre, positive. Il censimento dell’ottobre del 2018 ha cioè aggiunto abitanti a queste città (con l’eccezione di Prato), anziché toglierne perché ha scoperto esserci qui più abitanti di quelli registrati come residenti. Il censimento ne ha aggiunti più di duemila a Parma, Modena e Bologna. A Milano ha aggiunto ben 17.291 abitanti, pari a 12,7 abitanti in più ogni 1.000. A Roma è successo l’esatto contrario, la sua popolazione è stata ridimensionata di 35.914 abitanti che non c’erano, pari a 12,5 abitanti in meno ogni 1.000. Ma la campionessa indiscussa degli abitanti inesistenti è Catania: 13.832, pari a 44 abitanti registrati in anagrafe, ma inesistenti, ogni 1.000. Se avesse avuto le dimensioni di Roma a Catania sarebbero stati tolti in un colpo 128 mila abitanti ombra. Inaspettatamente, al secondo posto di questa non edificante graduatoria c’è Firenze, ridimensionata di quasi 9 mila abitanti, pari a 24 abitanti ogni 1.000 della sua popolazione. Motivi, anche questi, per riflettere.
E da riflettere c’è tanto, perfino troppo, in una popolazione come quella italiana in cui a tirare la volata verso declino ed emarginazione in Europa e nel mondo sono, se si escludono Milano e Bologna, tutte le più grandi città. Quelle che almeno teoricamente dovrebbero tirare nella direzione opposta. Quelle sulle quali più dovremmo contare per una al momento neppure lontanamente pronosticabile ripresa. Quelle che vanno al voto oggi.