Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  ottobre 02 Sabato calendario

Intervista a Mino Gabriele

È uno dei massimi esperti di immagini antiche, ne ha studiato la storia, le fonti, la loro stupefacente capacità di emigrare come fossero persone, e più lo si sente parlare più si avverte la passione con cui ne affronta la complessità. Mino Gabriele vive a Firenze, varrebbe la pena andarci solo per visitare la sua biblioteca. Dice che studia soprattutto di notte quando le biblioteche pubbliche sono chiuse e per questo si è dotato di una raccolta di libri notevoli, fatta soprattutto di fonti antiche, medievali e rinascimentali. È appena uscito un suo bellissimo e particolare studio su Roma: I sette talismani dell’Impero, preceduto di qualche anno da Il primo giorno del mondo, una suggestiva ricerca sul mondo rinascimentale (entrambi editi da Adelphi).
Lei sostiene che l’immagine è eclettica, molteplice, perché fonda il suo potere sull’ambiguità. Ma come fa a emigrare e ad essere nel tempo riconoscibile?
«La forma è ciò che consente all’immagine di essere riconoscibile. Mentre il significato tende ad alterarsi fino a venire sostituito da un altro. In origine la svastica è un simbolo solare molto antico che solo dopo una serie di passaggi diventa la deprecabile svastica nazista. La forma è dunque simile, mentre il significato muta nel tempo. Seguire le tracce di queste migrazioni, non sempre facili da individuare, porta a scoprire il prezioso filo della contaminazione che popoli diversi e civiltà differenti hanno tessuto. Viceversa, il rifiuto di tali transiti testimonia l’arida chiusura alla contaminazione, una situazione che si verifica soprattutto in contesti monocentrici, ultraortodossi o monoteisti».
Si definirebbe un iconologo?
«È una definizione che mi va un po’ stretta, considerati gli interessi che nutro per altre discipline. Sono uno strano cacciatore di immagini antiche, sia classiche che irregolari; ma le confesso che ho sempre avuto una certa curiosità per la bizzarria e il mostruoso».
I suoi libri sono “abitati” di figure anomale, fantasiose e terribili: draghi, serpenti, oggetti particolari spesso carichi di significati segreti. Che cosa l’affascina di questo mondo alternativo o parallelo a quello classico?
«L’uomo ha sempre avuto il bisogno di identificare ciò che gli è estraneo, dare una forma e un luogo a ciò che non vede e che immagina al di là del mondo conosciuto.
Questo accadeva nell’antichità e oggi, per esempio, con gli Ufo. Come prodotto dell’immaginazione trovo estremamente interessante la decifrazione delle sue componenti. I “mostri” sono invenzioni visuali straordinarie. Figure mitologiche come draghi, cinocefali, arpie, ciclopi, blemmi (ossia popoli mostruosi dall’aspetto terrificante); o figure religiose quali gli affreschi medievali del satana divoratore o, per venire alla nostra contemporaneità, certe mitologie cinematografiche come King Kong, Frankenstein, o lo xenomorfo Alien del capolavoro di Ridley Scott, compongono un quadro inquietante che ci colpisce e ci turba».
Che cosa hanno in comune queste figure?
«Assemblano o coniugano elementi bizzarri, stranissimi, irreali a elementi naturali o quotidiani: le corna terribili, le zampe enormi, i denti ferocissimi, la peluria animalesca, le teste e gli occhi deformi, sono comunque tratti riconoscibili che appartengono al mondo naturale. È come un collage che se scomposto è meno mostruoso del suo insieme. È questo sposalizio tra forma e deforme che mi interessa per capire il significato di mostruoso».
Non trova che il mostruoso nella cultura occidentale sia servito soprattutto per emarginare il diverso, allontanarlo da sé?
«Da sempre per Occidente il normale ha avuto bisogno del mostro per garantirsi identità e potere. Mentre è evidente che la vera mostruosità si è spesso incistata nella cosiddetta normalità».
Lei dà l’idea di essere uno storico molto particolare.
Chi sono stati i suoi maestri?
«La guida principale è stata l’innata curiosità che mi ha portato a conoscere, non credo casualmente, personaggi notevoli per spiritualità, cultura, intelligenza. Ricordo soprattutto padre Giovanni Vannucci per la sua visione interreligiosa della vita; François Secret per la chiara padronanza della cabbala e del simbolismo rinascimentale; Arnaldo Pini, un poeta dalla cultura sterminata; don Amilcare Taddei, sacerdote la cui profonda conoscenza dei segreti della natura e dello spirito mi hanno sempre stupito. Perfino a una anziana nobildonna veneziana che molto sapeva dell’antico Egitto, devo molto. Come vede si tratta di gente che è vissuta per lo più ai margini della cultura ufficiale e che ho raccontato in un breve romanzo, La mossa del diamante,pubblicato all’incirca un anno fa».
Dove è nato?
«A Buggiano in provincia di Pistoia. Ma poi con la famiglia ci siamo spostati seguendo i trasferimenti di mio padre che si occupava del controllo dei dazi sulle merci. Ho passato la mia infanzia in varie località della Maremma.
Sempre vicino al mare, vivendo in libertà in una natura allora intatta. Credo sia stato per me un momento di grande felicità. Mio padre, partigiano e sincero comunista, è stato un esempio di rettitudine morale e di onestà intellettuale. Mia madre, sarta e pittrice di un certo talento, mi ha trasmesso la passione del disegno. Un fratello più grande, dotato per le discipline scientifiche, è stato di stimolo verso il mondo della matematica e della geometria, la cui frequentazione è stata utile per il mio studio sulle illustrazioni nelle opere di Giordano Bruno».
Ma alla fine su cosa si è laureato?
«Ho fatto due anni di Architettura a Firenze per poi scoprire che i miei interessi andavano verso l’architettura sacra egizia e il suo simbolismo. Fondamentale per me Edda Bresciani, che fu una delle più grandi egittologhe al mondo. Insegnava a Pisa e pensai bene di trasferirmi alla facoltà di Lettere. Ricordo le affascinanti lezioni di Giorgio Colli sui misteri nel mondo greco».
Cosa la colpiva di quelle lezioni?
«Il sincero coinvolgimento con cui insegnava. Durante l’esame con lui si accorse che venivo da architettura e mi chiese cosa pensassi di quella disciplina. Gli risposi che l’essenziale dell’architettura era il vuoto e tutto il resto rappresentava l’abito con cui lo si vestiva. Rimase colpito da quella affermazione fatta da un inesperto studente. Si lanciò in una straordinaria spiegazione in cui parlando del vuoto mise in relazione il taoismo con i presocratici. Colli credeva in quello che diceva, nei mondi antichi che mirabilmente raccontava. Ed era convinto, come lo sono anch’io, delle origini sciamaniche della cultura occidentale».
Si è laureato con lui?
«No, mi laureai con Roberto Ciardi commentando il Mutus Liber, un testo alchemico composto di sole figure edito una prima volta a La Rochelle nel 1677. Quella tesi piacque a Elémire Zolla che mi spinse a pubblicarla».
L’alchimia cosa ha rappresentato per l’Occidente?
«Tutta la sua storia è fondamentale per comprendere lo sviluppo della scienza occidentale. Essa è l’antica madre da cui sono sorte le moderne chimica, farmacia e metallurgia. Ancora oggi esistono alchimisti che nutrono un rispetto assoluto per la natura e i suoi principi.
Difendono una dimensione ecologica sempre più spesso esposta all’oltraggio».
È questo che l’attrae?
«È un aspetto importante. Ma ciò che mi interessa e a cui ho dedicato tanti studi e scritti è il linguaggio simbolico dell’alchimia: uno straordinario e originalissimo vocabolario di allegorie e metafore inventate e trasmesse dall’antichità egizia al Settecento che si basa – in barba a tutti i fissati di esoterismo – su meccanismi immaginali e mnemonici regolati da formule retoriche».
Intende dire che l’aspetto esoterico è irrilevante?
«L’alchimia non è esoterismo ma tradizione di esperienze, protochimica, di cui si fraintende a volte il senso del segreto. La si riduce a formulette iniziatiche, quando in realtà i segreti alchemici riguardavano i metalli la cui composizione si tendeva a tenere nascosta».
L’alchimia mi fa pensare al mondo dell’infanzia quando ogni mescolanza era possibile. Quali letture sono state per lei fondamentali?
«Visto che mi occupo di immagini mi piace ricordare i tanti fumetti che ho letto durante l’infanzia: Blek Macigno, Capitan Miki, Tex, Corto Maltese, e poi Jacovitti, Moebius. Tra gli autori: Salgari, Apuleio, Ovidio Porfirio e Agrippa di Nettesheim, Giordano Bruno, Borges senza dimenticare i grandi archeologi Friedrich Creuzer e Franz Cumont. Tra i libri Pinocchio, l’Hypnerotomachia Poliphili, che ho curato insieme a Marco Ariani, le Liriche cinesi, Alce nero parla. Sono solo degli esempi».
Viene fuori un profilo originale che comprende l’alto e il basso. Oscillazione che sembra dominare anche nei suoi due libri più recenti.
«Pensa a qualcosa di particolare?».
Beh, nei “Sette talismani dell’Impero” c’è il racconto di come accanto alla potenza militare e giuridica Roma avesse esteso un territorio onirico fatto di interpretazioni del futuro.
«A causa della nostra concezione dissacrata del mondo stentiamo oggi a comprendere quanto i Romani sapessero sposare in una sola visione religiosa e cosmica la varietà delle opere e dei saperi umani, razionali e irrazionali che fossero».
È incredibile che Roma fosse popolata da un esercito numeroso di indovini, maghi, sibille. I romani da chi ereditarono il rapporto tra il magico e il religioso?
«Soprattutto dal mondo etrusco, anche se non mancarono apporti greci. Tutta la relazione tra mondo magico e religioso nel mondo antico è molto fluida, una sorta di vincolo simpatetico univa tutte le cose: pietre, piante, uomini, stelle, demoni, dèi. In modi diversi la logica della sympathia permeava l’intera creazione, influenzando tanto l’atto religioso che quello magico».
Lei spiega come i romani credessero fermamente che l’Impero, con i suoi trionfi, si fondasse su sette oggetti sacri. I “sette talismani” come lei li definisce. Davvero era così potente la loro presenza?
«I romani furono un popolo straordinariamente religioso e la loro devozione li spinse a credere che quei sette talismani proteggessero la città. I sette oggetti simbolo di potere e prosperità, erano chiamati pignora imperii dal latino pignus che significa pegno, garanzia ma anche reliquia. Ricostruirne la storia è stato difficile sia perché complicato è l’intreccio tra la narrazione mitologica e il dato documentale ma anche perché questi talismani compaiono sia nei primordi della storia di Roma che nelle fasi successive».
Quali erano questi oggetti straordinari?
«L’ago della madre degli dèi, la quadriga d’argilla dei Veienti, le ceneri di Oreste, lo scettro di Priamo, il velo di Iliona, il Palladio e i 12 scudi sacri. Oggetti, di straordinaria suggestione cultuale, che garantivano la continuità e la forza invincibile di Roma».
Perché sette?
«È il numero sacro che simboleggiava la totalità e la compiutezza. Del resto Roma fu costruita su sette colli e sette furono i Re. Il sette era considerato la perfezione».
Quando quegli oggetti smisero di svolgere la loro funzione sacra?
«Le ultime notizia dei pignora si collocano tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, nel momento in cui il cristianesimo distrugge con feroce intolleranza ogni traccia degli antichi culti pagani».
Nel sul libro “Il primo giorno del mondo” lei mostra che qualcosa di quel mondo scomparso rivive nel nostro Rinascimento.
«Nonostante il cristianesimo abbia dominato il mondo umanistico e rinascimentale, una certa élite culturale, come il neoplatonismo fiorentino, riscoprì il sacro nel mondo antico e lo fece attraverso il ritrovamento di testi scientifici, filosofici, teologici, ermetici, alchemici e teurgici. Fu un’onda liberatrice che permise una dotta rivisitazione dei miti e degli dèi e coinvolse il mondo delle arti come quello degli spettacoli. Per la prima volta, dopo il lungo intervallo medievale, influenzato dalla moralizzazione cristiana, il mondo tornava nuovamente a non essere diviso, ma connesso in tutte le sue parti. Se oggi vogliamo parlare di nuovo Rinascimento è a questo aspetto, a questa religiosità tollerante che dovremmo provare a volgere lo sguardo».