“Here is Mailano! Yeah! Lonely lonely lonely. Feel. So. Lonely”. Scandito da basso e batteria in un lento incedere, che diventa sempre più veloce: “I feel, I feel, I feel, I feel. So lonely. So lonely”. Il Palalido è stracolmo ben oltre le sue capacità, tutti ballano, le mura tremano. Chi c’era se lo ricorda: una pressione sempre più forte, insopportabile. Sting, tra poco, ci spiegherà il perché.
Taormina, Teatro Antico, 2021. Dopo un lungo silenzio, il primo concerto di un grande artista internazionale, in un luogo incantato. Quando arriva So Lonely è ancora veloce ed eccitante come nel 1980 ma non ci si può alzare dalle sedie perché l’emergenza Covid non è finita.
Walking on the Moon diventa Get Up, Stand Up, in omaggio a Bob Marley, al reggae e ai diritti civili e, in Next to You, insieme a Sting canta il figlio Joe. Proprio oggi, mentre leggete, il 2 ottobre, Sting compie 70 anni.
Quello a Milano, nel 1980, fu un concerto indimenticabile. Ricorda?
Era così pieno di gente che si faticava quasi a respirare.
«Certo che me lo ricordo. Successe perché a un certo punto aprirono le porte e così entrarono senza pagare migliaia di persone che iniziarono a premere su chi era davanti».
Allora alcuni pensavano che la musica dovesse essere gratuita.
«La musica deve essere gratuita: ok, creiamo il caos! Nello stesso tour abbiamo suonato a Reggio Emilia, in mezzo ai lacrimogeni, e mentre cantavoRoxanne piangevo (ride)».
Era uno strano periodo.
«Era un periodo molto pesante: c’erano le Brigate Rosse. Quella fu la prima volta che venni in Italia».
Le piacque già allora, nonostante tutto?
«Sì, me ne innamorai. Rappresentava l’esatto contrario dell’Inghilterra, non a caso è all’estremità opposta anche geograficamente. Il tempo è diverso, il cibo anche. Mi sono detto: “Wow! Voglio vivere qui!”».
Negli anni 80 eravamo periferia dell’Impero: quando vennero i Police i media, allarmati, dicevano che stava arrivando una band punk.
Foste i primi, i Clash sarebbero giunti solo qualche mese dopo. Ma eravate davvero una “band punk”?
«No, però eravamo una nuova band a quel tempo. Quella del punk era un po’ una bandiera di convenienza sotto cui stare. Era come se stessimo navigando verso un porto con una bandiera che non era veramente la nostra ma segnalava che eravamo nuovi, freschi e avevamo energia».
È vero che il nome Police lo scelse il batterista, Stewart Copeland, e che a lei non è mai piaciuto?
«No, non mi piaceva. Era troppo... disciplinato e molto conservatore.
Stewart diceva che suo padre era nella CIA e che gli piaceva quel tipo di atmosfera. Non dissi nulla: era la band di Stewart, l’aveva formata lui, non potevo oppormi. Poi io sono diventato quello che scriveva le canzoni ed è diventata la mia band».
Nella sua biografia, “Broken music”, parla delle difficoltà di affittare un appartamento: lei, sua moglie e vostro figlio dormivate sul pavimento a casa di un’amica. Ha mai pensato di arrendersi?
«Non ho rimpianti, ma è stato molto difficile andare a Londra con un bambino piccolissimo senza soldi né un posto dove dormire. Non me ne sono mai pentito e credo mi aiuti a capire cos’è la mia vita adesso».
È importante essere stati poveri?
«Non lo eravamo davvero. Avevamo abbastanza cibo per sopravvivere ma non avevamo soldi. La vera povertà è vivere in una baracca e non avere da mangiare. Ero un maestro di scuola elementare e avevo lasciato il lavoro: la direttrice, che era una suora, mi disse: “Si rende conto che perderà la pensione?”. L’ho guardata e mi sono detto: “Ok, perderò la pensione”. Ero certo che ciò che stavo facendo fosse la cosa giusta, anche se poteva sembrare una follia. Ho seguito la mia passione, il mio istinto, il mio sogno, non la logica».
C’è stato un momento in cui invece ha pensato “posso farcela”?
«Quando canto mi sento al sicuro.
Quando una nota viene fuori e senti che sta funzionando, che la gente è lì con te, ti dici: “Questo è il mio lavoro, la mia vita”».
È stato molto bello che lei sia andato a suonare, nel 2018, per i lavoratori della Bekaert di Figline Valdarno il cui posto di lavoro era — e purtroppo è ancora — minacciato.
Qualcosa del genere accadde anche nella sua città natale, Wallsend.
«Le cose si ripetono. Sì, alcuni operai mi raccontarono la loro storia, da quanto tempo lavoravano lì e che venivano licenziati per questioni economiche. Io però credo che un’azienda, quando si è insediata in una città per così tanto tempo, abbia delle responsabilità. Oggi purtroppo temo abbiano chiuso e che però siano ancora in corso delle trattative per riassorbirli. La situazione è dura in tutto il mondo in questo periodo. Io volevo esprimere il mio supporto: abito lì vicino e penso che il lavoro sia qualcosa di più dei soldi: è dignità».
Lei, nonostante la sua ricchezza, si è da sempre dichiarato di sinistra ma c’è chi la critica per il suo impegno.
«Sì, lo sono sempre stato e lo sono ancora: come ho appena raccontato il mondo da cui vengo non è quello della ricchezza, so quali sono i problemi della gente e so che è importante dare una mano prendendo posizione su certe cose».
Dell’Inghilterra di oggi, con la Brexit in atto, cosa pensa?
«Non mi faccia parlare. Vorrei trovare una sola persona capace di spiegarmi oggi perché la Brexit è una buona idea ma nessuno lo può fare perché è una cosa assolutamente stupida. Gli piaceva così tanto questa idea purista: “Noi dobbiamo essere soli!”.
Non sta andando bene. E questo non mi rende felice. Amo la mia nazione e sono triste nel vederla soffrire».
Come ha passato il periodo del lockdown?
«Sono molto fortunato perché ho una grande casa, un grande giardino e uno studio dentro la casa, per cui anche se non ho potuto andare in tour ho comunque lavorato: per un anno intero entravo in studio alle dieci e ne uscivo solo per cena. Alcuni giorni non riuscivo a tirar fuori granché ma in altri mi veniva qualche buona idea e alla fine ne è uscito fuori un album di cui sono molto orgoglioso, l’ho chiamato The Bridge.
Il titolo è una sorta di metafora per quello che io, ma credo un po’ tutti noi, stiamo cercando in questo momento: un ponte verso qualcosa di più sicuro, di più felice, perché siamo in un momento di difficile transizione, pieno di incognite, dalla pandemia al cambiamento climatico, alla dura situazione sociale e politica.
È un ponte metafisico in un disco pieno di speranza ma anche di realismo nel cercare di essere comunque ottimista».
Adesso ritornano i concerti: qui al Teatro Antico di Taormina e poi?
«All’Acropoli di Atene: amo suonare tra le antiche rovine, è molto appropriato per questo disco. Poi ci saranno Parigi, New York e, infine, il Coliseum di Las Vegas: sarà uno spettacolo particolare, molto tecnologico, con un gioco di luci e proiezioni estremamente sofisticato.
Di solito il mio show è molto semplice così questo è un po’ un esperimento».
Perché poi non viene a suonare al Colosseo vero, quello di Roma?
«Questa è veramente una buona idea! Roma ha bisogno di un posto ampio per i concerti che non sia lo Stadio Olimpico: io non amo suonare negli stadi. Me lo segno, grazie!».