Specchio, 3 ottobre 2021
Ritratto di Paul Schrader
Ho visto per la prima volta un film a 17 anni – mi ha raccontato una sera Paul Schrader – e non mi fece una grande impressione. Provengo da una famiglia rigidamente calvinista di origine olandese e tedesca, dove anche il fatto di vedere un film rappresentava una forma di corruzione: credevo che il mio rappresentasse un gesto liberatorio, ma non fu così». Racconta queste cose con un tono che non è mai distaccato, ed è chiaro che non c’è nulla, in quello che dice, che non sia intimamente legato a questa identità, anche quando sceglie di combatterla. Ed è evidente che ogni suo gesto, ogni sua battuta, ogni sua creazione, testimoni la volontà di un processo catartico: i suoi personaggi, che rappresentano tutti degli alter ego, sono uomini autodistruttivi, il cui percorso esistenziale è caratterizzato da scelte etiche, a volte inconsapevoli, che generano una violenza sorda ed esplosiva.
È così Travis Bickle, il protagonista di Taxi Driver, il film diretto da Martin Scorsese, come anche Yukio Mishima, il grande e tragico poeta giapponese nel quale si è rispecchiato nella pellicola che ha realizzato lui stesso. O Jake La Motta in Toro Scatenato, diretto ancora una volta da Scorsese: un uomo il cui unico talento è quello di far male, che capisce che ciò può portarlo alla gloria sul ring, ma nell’abisso nella vita privata. Dopo essersi laureato in filosofia seguendo anche corsi di teologia, aveva deciso di abbracciare la chiamata della fede e diventare un reverendo. Ma poi lesse per caso “I lost it at the movies” di Pauline Kael, e ne rimase folgorato. Un giorno, mentre continuava a rileggerne i saggi fu avvicinato da un giovane che, notando il libro, gli disse che avrebbe potuto presentargliela: si trattava del figlio di un collega della Kael, che gli fece conoscere l’autrice di quel libro che continuava a divorare. Pauline Kael rimase molto colpita dal fervore e l’intelligenza con cui riusciva a interpretare i film, poi, notando che aveva bevuto troppo, lo fece rimanere a dormire sul suo divano e la mattina successiva gli disse «tu non vuoi fare il reverendo ma il critico cinematografico». Fu grazie a lei che iniziò quella carriera, che lo portò a scrivere Transcendental Style in Film: Ozu, Bresson Dreyer, un testo imprescindibile per chiunque ami il cinema. Poco tempo dopo, scrisse in dieci giorni Taxi Driver e mandò la sceneggiatura alla Kael, la quale la nascose in uno scaffale perché riteneva che conteneva talmente male da non farla dormire. Lui commentò in seguito di aver scritto il film come “terapia personale."
Fa impressione come un uomo dall’aspetto così bonario abbia in realtà dentro di sé tanto tormento, e lui racconta col sorriso sulla bocca di tutte le dipendenze che è riuscito a superare, a cominciare dall’alcool e la cocaina: nel libro Easy Riders, Raging Bulls, nel quale il critico Peter Biskind racconta il lato oscuro della cosiddetta Hollywood Renaissance, spiega che «un giorno, durante le riprese di Cat People, stavo sniffando cocaina nel mio camerino e non volevo uscire. A un certo punto è arrivato il mio assistente per chiamarmi sul set e ha cominciato anche lui a sniffare. A quel punto è arrivato anche il secondo assistente e nel giro di pochi minuti tutte e tre ci stavamo drogando. Finché qualcuno ha detto: riusciremo a trovare qualcuno che diriga questo film?». Molti suoi aneddoti sono estremi, ma è un piacere sentirlo parlare di cinema per i riferimenti colti e nello stesso tempo semplici: oltre ai tre registi citati nel titolo del suo capolavoro critico, ama il cinema di Ford, Renoir, Rossellini, Antonioni, Hitchcock e Peckinpah. Cineasti diversissimi, ma accomunati dal fatto di essere maestri del linguaggio delle immagini. In un incontro pubblico che ho moderato si è dilungato sul verde del cappotto indossato da Monica Vitti in Deserto Rosso, e poi, parlando del Conformista di Bertolucci ha spiegato che i dittatori tendono ad amare gli architetti e a odiare i poeti: ragiona così, Paul, divagando e associando idee imprevedibili ma sempre perfettamente coerenti. Si mise in mostra scrivendo insieme al fratello Leonard il copione di Yakuza che divenne l’oggetto di un’asta ricchissima tra tutte gli studios hollywoodiani. Il film, che venne diretto da Sydney Pollack, si rivelò un fiasco al box office, ma ormai il suo nome era apprezzato da produttori e registi, e scrisse quindi Obsession per Brian De Palma e una prima versione di Incontri ravvicinati del terzo tipo per Spielberg, che il regista bocciò, considerandola «troppo caratterizzata dai sensi di colpa». Tra Taxi Driver e Toro scatenato debuttò alla regia con Blue Collar, a cui fece seguito Hardcore, nel quale affronta direttamente il suo retroterra calvinista. Il suo più grande successo del regista è tuttavia American Gigolò, nel quale, sotto la superficie mainstream, riesce a inserire molti dei suoi temi: il narcisismo, il vuoto morale e la tendenza all’autodistruzione. Personalmente ritengo che i suo capolavori siano Mishima e First Reformed, ispirato dal Diario di un curato di campagna di Robert Bresson.
«Sono sempre affascinato da come la gente vuole essere una cosa ma si comporta nella maniera opposta» mi disse la sera della prima, «quelli che dicono ad esempio che vogliono essere felici ma poi fanno di tutto per essere infelici». Ha compiuto da poco i 75 anni ed e nel pieno di una seconda fase creativa della sua vita, continuando a girare un film dopo l’altro. Pochi giorni fa, dopo una proiezione di Card Counter mi ha spiegato che è già in preparazione un nuovo film che avrà come protagonista Sigourney Weaver, ma l’entusiasmo ha lasciato per un attimo il posto al dolore, quando mi ha detto che la moglie Mary Beth è malata di Alzheimer. «La vita quotidiana prende sempre il sopravvento su tutto», ha aggiunto, poi ha ripreso immediatamente a parlare di cinema, spiegandomi che «il segreto della vita creativa è sentirsi a proprio agio con il proprio imbarazzo».